Il 29 giugno del 2009, 11 minuti prima della mezzanotte, i quattordici vagoni del treno merci 50325 partito da Trecate in direzione Gricignano, quattordici cisterne ripiene di GPL, uscirono dai binari. Probabilmente fu il primo carrello a cedere, quello che legava la prima cisterna alle altre e che probabilmente si trascinò dietro tutti gli altri. In pochi minuti, il GPL fu ovunque, sparso sul terreno e, dopo pochi istanti prese fuoco. 11 persone morirono all’istante. Altre 20 nelle ore e nelle settimane successive.
Ora, a distanza di 7 anni, Federico Di Vita e Ilaria Giannini hanno ricostruito le storie di quella notte in un libro edito da Piano B edizioni e intitolato I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio. Pubblichiamo questo estratto per gentile concessione dell’editore.
Anna Maccarone ci accoglie nella sua villetta a Stiava in un caldo pomeriggio d’estate. Pochi passi dividono la porta d’ingresso dal cancello ma lei ci viene incontro lentamente, con circospezione: indossa lunghi pantaloni scuri e sandali ortopedici, ci sorride e ci saluta con una voce strascicata e dolcissima. Ci sediamo al fresco in cucina e accettiamo un bicchiere d’acqua: con noi ci sono anche Alvaro Lunardi, il marito, e la figlia Sabrina, che vive con loro. Tutti e tre sono rimasti ustionati la notte del 29 giugno nella loro vecchia abitazione di via Porta Pietrasanta, Anna ne porta addosso i segni.
Sono felici che qualcuno sia venuto ad ascoltare la loro storia e sebbene si sforzino di andare con ordine finiscono per interrompersi a vicenda, allargano lo sguardo dell’uno in quello dell’altro.
Prima di quella notte Sabrina era impiegata come commessa ma adesso per il dolore alle gambe non riesce più a stare in piedi tante ore di fila. Alvaro era già in pensione ma lavorava con le barche, ha dovuto smettere. Anna faceva volontariato assistendo una vicina anziana: oggi non è più autosufficiente, ha una piccola pensione di invalidità e teme che possano levargliela. Di tutti gli ustionati di Viareggio è stata la penultima a uscire dall’ospedale.
***
Anna: Quella sera eravamo tutti in casa, ci preparavamo per andare a letto, abbiamo sentito dei rumori forti, degli scoppi. Si sono aperte le porte, è entrato un intenso odore di gas, abbiamo pensato a un attentato, non capivamo… l’aria era proprio rossa, incandescente, tanto che avevo un’ombrelliera e una pianta e sono fuse completamente.
Alvaro: Nel momento dell’esplosione ero in un bagnetto dietro casa e ho visto quello che è successo. Il cielo era tutto bianco, sopra i tetti c’era una cappa che quando l’ho vista ho pensato questa è la fine del mondo.
Anna: Siamo scappati fuori, io sono rimasta un po’ indietro rispetto ad Alvaro e a mia figlia, mi sono voltata e ho visto esplodere un camion, dietro di noi c’era un rumore fortissimo, era il gas che prendeva fuoco e io, che ero l’ultima, non ho fatto in tempo a girarmi per vedere cos’era che il vestito già mi andava in fiamme. Mi hanno preso fuoco il viso, i capelli, il vestito – tutto insieme. Abbiamo cominciato a urlare ma non abbiamo avuto nemmeno il tempo di tirare quest’urlo che la grande forza del fuoco ci ha buttato a terra, loro sono caduti in ginocchio, io all’indietro, mi sono rotta anche la testa.
[…]
Alvaro: Quando ho aperto la porta di casa per scappare mi sono girato verso la Stazione e c’era questo fuoco che si alzava dal muro invadendo tutta la strada, era alto quanto le case, la prima l’ha fatta esplodere, quella dove sono morti i bimbi. Io mi aspettavo che ci prendesse tutti, invece il gas è arrivato dove eravamo noi, l’onda d’urto che precede le fiamme di due o tre metri ci ha buttati tutti e tre in terra, mi sono girato e ho cercato di rialzarla, per scappare.
Sabrina: Ma quando ci ha buttato in terra il dolore…
Alvaro: Eravamo bruciati.
Anna: Ho sentito i capelli che friggevano.
Alvaro: Mi sono girato e il fuoco si stava ritirando, è arrivato proprio dietro di noi.
Anna: A noi ci ha preso il fuoco, altroché.
Sabrina: Quando sono cascata il dolore nelle gambe era paralizzante, se uno voleva scappare non ci riusciva. Dopo, quando quest’onda d’urto si è ritirata, ce la facevi a rialzarti e fuggire. Te no [rivolgendosi alla madre], perché la ferita era già grave, eri più devastata rispetto a noi. Perché, anche se di pochissimo, era più indietro, trenta centimetri. Ma aveva un vestito corto…
Alvaro: Aveva le gambe libere, noi invece avevamo i pantaloni lunghi, è quello che c’ha salvato. Mi sono bruciato anch’io, i piedi, la gamba, la mano aveva la pelle tutta slabbrata, ma non ho sentito dolore, dopo sono rientrato in casa un paio di volte per prendere degli asciugamani bagnati e darli a lei che si sentiva bruciare. La seconda volta che sono rientrato ero vicino all’acquaio, prendevo l’acqua con un catino ed è arrivato un signore con un bimbo in braccio tutto nero e chiedeva acqua, acqua, acqua… Quando l’ho visto ho aperto il rubinetto e ce l’ho messo sotto, ha pianto un attimo, poi ha smesso. Era il bimbo di Marco Piagentini, aveva due anni, era piccino così.
[…]
Anna: All’ospedale a Viareggio è iniziato il calvario. […] In alcuni punti le gambe erano praticamente morte, erano bruciate parecchio. Poi mi hanno fasciata, medicata un po’ come potevano e anche nel viso mi hanno dato una pomata, non so cosa fosse, perché anche il viso era bruciato, le orecchie, gli occhi, ero tutta bruciata. Poi la mattina mi hanno mandata a Torino, eravamo in tre: io, mia figlia e il polacco del camion. Siamo andati in ambulanza fino all’aeroporto di Pisa, poi con un aereo militare fino a Torino e a Torino con l’elicottero fino al Cto.
Sabrina: Anch’io sono stata messa con lei nel reparto dei grandi ustionati, che è quello in cui fanno passare le visite solo mezz’ora al giorno. Rimani quasi in isolamento, anche questo è stato duro per lei.
Anna: Guardavo il soffitto.
Sabrina: Sono rimasta lì una quindicina di giorni, dopo mi hanno passato nel reparto di chirurgia plastica. Avevo le gambe fasciate con metà delle dita dei piedi fuori, le ho viste bianche, proprio bianche, allora la prima cosa che ho chiesto è stata: lo so che sono grave, voglio sapere se le dita dei piedi me le amputate o meno, così mi preparo. Uno pensa comunque senza le dita dei piedi posso camminare, in qualche maniera ce la faccio. Non ero tanto preoccupata perché ero viva, quella era la cosa più importante, poi anche loro erano vivi.
Mi hanno detto sicuramente no, di stare tranquilla.
Anna: A Torino è cominciata l’odissea. Ho avuto otto interventi e un centinaio di anestesie perché ogni volta dovevano medicarmi, ripulire tutto… L’ustione era estesa al cinquanta per cento. Ho avuto parecchie complicazioni. Durante il primo intervento sono andata in fibrillazione, non so se è stato un arresto cardiaco, hanno dovuto rianimarmi con le piastre elettriche. Poi mi è venuta una necrosi, sono diventata tutta nera, praticamente dovevo morire, temevano che gli organi interni fossero compromessi. Una bella paura. Queste cure sono continuate, fino a sei, sette mesi in cui ho avuto di tutto: la tosse, la pressione oltre i 220, le bolle nella gola, le placche, di tutto.
* * *
Anna: Mica ti innestano subito la pelle nuova… sarebbe troppo facile [ride amaramente]. Hanno dovuto ripulire tutto, togliere parte del muscolo.
Sabrina: Veniva anestetizzata un giorno sì e uno no. La pulizia delle bruciature avviene un giorno sì e un giorno no e fino a che sono gravi la fanno in anestesia totale. Ti mettono in questa vasca d’acciaio per levarti le garze ormai imbevute di sangue secco: sei nuda e con l’acqua fredda, non tiepida, fredda, te la passano sulle bende per staccarle, inumidendole un po’. Il dolore è talmente forte che l’anestesia è totale. Ti vengono tolte le bende, poi vieni praticamente grattata. Non devono esserci croste sennò viene l’infezione e restano cicatrici più grosse. Poi ti rimettono le creme, le bende, e si ricomincia da capo. […] Le medicazioni sono tremende, perché ti svegli con dei dolori…
Anna: Io avevo la morfina 24 ore su 24.
Sabrina: Ma non ti fa più di tanto. Arrivati a un certo punto della guarigione le medicazioni procedono senza anestesia totale, ti viene data la morfina sotto la lingua. Averla o no è la stessa cosa.
Anna: A me davano anche qualcosa di più forte.
Alvaro: Lei avrà più di duemila punti addosso. Avevano la macchinetta per attaccare la pelle coi punti metallici.
Sabrina: Mettevano sopra il vecchio tessuto questi lembi di pelle da donatore, quindi da cadavere, che venivano spillati, pezzi di venti centimetri… aiutavano la pelle a rigenerarsi.
Anna: Sono rimasta sette mesi ferma nel letto, ferma ferma.
[…]
Sabrina: Un giorno sì e uno no c’era qualcosa, come quando ha avuto quella necrosi… era appena tornata da una balneazione, e in genere è dolorosa. Era tutta un po’ nera e si lamentava più del solito. Quando arrivò l’infermiera mi mandò subito fuori. Era già nera in viso e nelle braccia, le gambe erano fasciate fino ai piedi.
Sono entrati quattro o cinque medici, i chirurghi, il cardiologo… Ci hanno fatto stare fuori e non mi davano notizie. […] Non sapevo che l’avevano aperta ed era completamente nera.
Anna: Avevo tutto il viso, il naso e le braccia neri. Mi hanno detto i medici che non era mai successo.
Sabrina: Mai. Il primario, da più di trent’anni in quel reparto, ha detto che non era mai successa una cosa così, mai. Anche loro non sapevano… Poi la bravura, la fortuna… si vede che non doveva succedere…
Anna: La necrosi c’è stata dopo la seconda o la terza operazione, dopo circa un mese. Per me è stato un miracolo.
Sabrina: Ha avuto dei segnali.
Anna: Sì, ho avuto dei segnali. Prima di un intervento stavo guardando fuori dalla finestra, ero insieme a lei, e ho visto una nuvola bianca bianca, più bianca delle altre, e c’era la faccia di Padre Pio.
Sabrina: Lei ha visto la faccia di Padre Pio, io guardandola non notavo niente, lei la vedeva e mi urlava proprio.
Anna: Ho visto la faccia di Padre Pio e la notte mi si è accesa la luce sopra al letto, io non potevo muovermi, si è accesa da sola. C’è stato l’intervento ed è successo questo episodio di necrosi. Poi, quando la pelle ha cominciato a diventare più chiara, mi è venuta una scritta sulla mano: ok. […] Gli infermieri mi prendevano in giro, mi dicevano te c’hai il timbro del Padreterno. Sono credente ma non fino a questo punto. La mia mamma pregava tanto Padre Pio.
[…]
Anna: Alle gambe ho bisogno di altri due interventi, cerco sempre di rimandarli perché magari pian pianino miglioro… però le gambe tirano, sono corte e sotto si spaccano, sono sempre aperte qui dietro. È un calvario. Mi dovessero ripagare per tutto quello che ho sofferto dico che non ce la fanno.
Sabrina: […] Anch’io a volte sento dei dolori che magari mi fanno tirare un urletto, ma ti ci abitui e ci convivi. Rimangono le cicatrici però sei viva e quindi vai bene così, ti dispiace, ogni tanto dici perché proprio a me? Poi quando dico perché proprio a me penso perché proprio a lei? […] Bastava un metro in più e c’era un muretto, ci avrebbe salvati, bastava un metro. Ci ha preso un metro prima.