Paese eccentrico, piccolo e dalla popolazione ridotta. Eppure, oltre agli exploit calcistici inaspettati, l’Islanda ha i numeri per stupire il resto del mondo. È un modello di parità e di uguaglianza tra i sessi, possiede una politica accorta per i congedi parentali e una visione della realtà molto tollerante e solidale. In più, ci sono un sacco di geyser.
Parità
È uno dei tratti principali della società islandese. Almeno dal 24 ottobre 1975, giorno in cui le donne del Paese decisero di scioperare, quasi all’unanimità. Con una marcia per le strade di Reykjavik manifestarono contro un sistema che le discriminava, imponeva paghe più basse e meno ferie. È stato, per l’isola, un giorno storico. Cinque anni più tardi viene eletta come presidente dell’Islanda Vigdís Finnbogadóttir, il cui mandato è stato rinnovato per altre tre volte (coprendo un periodo di sedici anni: dal 1980 al 1996). È stata la prima donna al mondo a essere eletta, in via democratica e a suffragio universale, presidente della Repubblica – certo, adesso c’è un uomo che è in carica da vent’anni esatti, ma pazienza.
Il tema della parità è comunque sentito: a Davos, dove si radunano, per il World Economic Forum i potenti della Terra per decidere il da farsi, l’Islanda è stata più volte lodata proprio per i suoi risultati in termini di parità, soprattutto nei campi dell’istruzione e del lavoro. Hanno raggiunto – secondo alcuni – l’87% di parità (calcolata non si sa come). Ma se continuano così arrivano al 100%.
Divisione ruoli
A corredo di questo aspetto, c’è anche una divisione dei ruoli tra uomini e donne piuttosto evoluta. Ad esempio con i figli: tutti i genitori islandesi devono avere la possibilità di stare a contatto con i figli. Insomma: si danno tre mesi alla madre, tre mesi al padre e tre mesi da condividere. Se il padre non si prende i suoi tre mesi di congedo, non vengono assegnati nemmeno i tre mesi da condividere.
Solidarietà
Ad esempio, nei confronti dei rifugiati. Gli islandesi hanno accolto 50 siriani, ma almeno 11mila hanno offerto la loro casa per i rifugiati. Altri 14mila (o forse sono sempre gli stessi, chi può dirlo), si sono detti pronti a servire come volontari per la Croce Rossa. In generale, sono disposti ad aiutare e desiderosi di integrarli nella società. “Non abbiamo intenzione di creare dei campi per rifugiati, qui. Vogliamo che le persone si integrino, che abbiano un lavoro, un alloggio e che i loro figli possano andare a scuola, anche invitandoli alle feste di compleanno”, ha spiega il ministro degli Affari Sociali Eygló Harðardóttir.