A unire i puntini di quel che è successo nell’ultima settimana intorno al Salone del Libro di Torino — 4 arresti per turbativa d’asta tra i vertici del Salone, una dichiarazione forte dell’Aie e un’altra dell’assessore alla cultura del Comune di Milano — in molti sono concordi a iniziare a pensare all’estrema unzione per quello che è stato, dal 1988 in poi, l’evento più importante della filiera editoriale italiana.
Ma come nei film western, per sapere che c’è nel deserto c’è il cadavere del fuggitivo, forse non c’era bisogno di aspettare gli spari, né di vedere all’orizzonte la sabbia alzata dai cavalli dagli uomini dello sceriffo, né tantomeno di vedere gli avvoltoi svolazzare sul deserto e chiudere cerchi sempre più stretti. Bastava vederlo scappare, quel poveretto assetatto vestito di stracci, per capire che stava per fare il suo ultimo chilometro.
Bene, per il Salone vale un po’ la stessa cosa, e difatti l’allarmismo per la probabile fine della kermesse torinese arriva un po’ in ritardo. Perché per capire che il Salone era un morto che cammina da almeno un lustro, bastava guardarlo in faccia. Le prove sono davanti a tutti. E lo sono da un po’.
Il primo indizio riguarda il pubblico e si nota per prima cosa dall’evoluzione delle code agli ingressi, anni fa chilometriche, ma negli ultimi anni in netto calo. E il fatto che il calo non si veda dai numeri ufficiali non toglie le castagne dal fuoco, anzi, forse le sbruciacchia ancor di più. Perché non cambia molto che l’ex sindaco Fassino abbia detto, giusto un paio di mesi fa, che «i dati di questa edizione 2016 del Salone Internazionale del Libro confermano la giustezza e la forza delle scelte compiute in questo anno di grande lavoro per un Salone all’altezza delle aspettative più ambiziose». Quello che non si può non notare al Lingotto negli ultimi anni è che ci sono sempre più scolaresche portate a forza, sempre più giovani, tra l’altro, sempre più fuori luogo in un posto come una fiera.
D’altronde, perché mai dovrebbero continuare a venire i loro genitori? Forse al Salone non se l’è mai chiesto nessuno, ma perché mai un lettore che non sia particolarmente motivato — e l’AIE sa bene quanto siano merce rara di questi tempi in Italia — dovrebbe aver voglia di pagare un biglietto per entrare in un posto ostile e rumoroso come una fiera per comprare dei libri nuovi e freschi di catalogo a prezzo pieno quando, a pochi chilometri di distanza, nelle librerie del centro, quegli stessi libri li trova scontati.
Vogliamo chiedere agli editori? Ok, però non facciamoci bastare i dati dei big, quelli che dentro i saloni del Lingotto si costruiscono megastore e che vendono di tutto; andiamo a vedere quelli piccoli e medi, per i quali il Salone dovrebbe essere la ribalta. Se tralasciamo alcuni rari casi, la cui fortuna non è fortuna, ma bravura ed è il risultato di un lavoro nettamente migliore della media — la maggior parte fa fatica a ripagarsi le diverse migliaia di euro che costa uno stand.
E cosa vogliamo dire degli addetti ai lavori? Andate a chiedere ai redattori, agli uffici stampa, agli editor e persino a qualche direttore editoriale, spina dorsale delle case editrici, lavoratori culturali iperspecializzati, anche se sempre più spesso sottopagati, che passano una settimana a fare 16 ore al giorno gli standisti, a montare, smontare, spostare. È un inferno. E se i primi anni può essere divertente e stimolante, invecchiando diventa massacrante.
Sempre restando agli addetti ai lavori: se passavi in sala stampa qualche anno fa faticavi a trovare posto, c’erano giornalisti ovunque, persino per terra, per trovare prese per caricare computer e telefoni. Negli ultimi anni, complice anche il fatto che le redazioni non hanno più soldi per mandare inviati apposta, la sala stampa è diventata talmente deserta da essere il miglior posto per fare interviste, per il silenzio. Forse non lo confesserà mai nessuno, ma la verità è che gli eventi più affollati sono le ormai classiche feste del venerdì e del sabato. Dove non si è mai sentito parlare di libri. Dove ci si sbronza per non pensarci, ai libri.
Insomma, la sensazione degli ultimi anni è che il Salone si sia trasformato in una iniziativa fatta per dire di averla fatta, piuttosto che fatta per funzionare il meglio possibile e portare acqua a tutti i mulini. E proprio per questo, in un panorama così desolante, servirà veramente spostare la fiera da Torino a Milano? A vedere come è gestito Bookcity, un altro evento che a vedere i numeri dà l’impressione di essere un Golia, ma che a girarlo per davvero, lascia in bocca lo stesso sapore di occasione sprecata, di evento contenitore organizzato per poter dire di averlo fatto, più che per fare veramente un’operazione culturale.
Un Salone del Libro di Milano avrebbe lo stesso problema del Salone del Libro di Torino. Quale? Be’, che non ha capito cosa vuole essere. Guarda con invidia alla Fiera di Francoforte, ma è abbastanza lontano dall’essere una fiera dove gli editori internazionali vengono a comprarsi i nostri campioni. Guarda con altrettanta invidia ai festival ormai diffusi e consolidati in tutta Italia — dal Festivaletteratura di Mantova a Pordenonelegge, dalla Grande invasione di Ivrea al Festival della microeditoria di Chiari, crocevia di incontri tra l’editoria e i suoi lettori che funzionano da anni. E guarda con invidia anche a eventi più glamour come il Fuori Salone di Milano — e infatti da alcuni anni c’è un Fuori Salone anche a Torino. Ma il Fuori Salone del design di Milano ci ha messo quindici anni per svilupparsi e consolidarsi, tutto dal basso, scalzando ormai il Salone principale come evento attrattivo della settimana del Mobile.
Si tratta di un’invidia giustificata, ma che non ha ancora portato alla giusta reazione. Invece di ingaggiare una guerra fratricida tra città per ospitare un evento morto, perché non usare quel che già c’è in tutta Italia e farlo diventare un organismo? Abbiamo mille prove del fatto che portare gli autori ai lettori, in ogni singolo paesello d’Italia, è il modo migliore per far sopravvivere l’editoria sana. E allora perché non creare una federazione di festival, ognuno con la sua singolarità di pubblico e di interesse specifico: dal festival dedicato ai ragazzi, a quello dedicato al Giallo, da quello dedicato alla letteratura di viaggio a quello dedicato alla poesia.
Insomma, forse c’è già tutto. E, se c’è e se sopravvive bene, spesso è grazie al volontariato di migliaia di persone che dedicano il loro tempo alla propria comunità. Basta unire dei puntini, anche qui. Basterebbe investire qualche soldo sulla coordinazione per innescare un circolo virtuoso basato sulla collaborazione, sulla pubblicità reciproca, sullo scambio di competenze ed esperienze, e magari anche sull’unione delle forze economiche tra festival per avere autori di calibro internazionale e pagare viaggi intercontinentali alla romana. E magari, cancellando il Salone, negli spazi del Lingotto si potrà organizzare una fiera commerciale dell’editoria, una vera, solo per addetti ai lavori, solo per editori, un mercato dei titoli che, chissà, magari potrà far aumentare il numero molto esiguo dei titoli italiani tradotti all’estero, dando un po’ di ossigeno anche ai piccoli editori.