Il mondo scoprì l’esistenza del Bangladesh nell’agosto del 1971, quando George Harrison, Bob Dylan ed Eric Clapton salirono sul palco per il primo concerto di beneficenza globale della storia, Concert For Bangladesh, la madre di tutti i Live Aid. Suonarono con Ravi Shankar, indiano, virtuoso del sitar: “globalizzazione” all’epoca era una parola che riguardava solo la musica, i buoni sentimenti, le raccolte fondi per i bambini che morivano di fame in questa minuscola scheggia del continente indiano stremata dalla carestia e da una guerra civile che aveva fatto tre milioni di morti e dieci milioni di profughi.
Le vittime italiane della strage di Dacca – Adele Puglisi, Marco Tondat, Claudia Maria D’Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D’Allestro, Maria Riboli, Cristian Rossi, Claudio Cappelli e Simona Monti – erano tutte troppo giovani per avere memoria di quel concerto. Il “loro” Bangladesh era un’altra cosa. Una seconda patria dove fare impresa fidando sul buon tasso di crescita, sulla docilità dei lavoratori del settore tessile (il 90 per cento donne) e riserve quasi illimitate di manodopera. Un posto povero e tranquillo, cardine di un’altra e più moderna globalizzazione – quella dell’economia, del commercio, dello sviluppo del mondo – costruita sulle infinite possibilità del villaggio globale in cui anche l’arretratezza sociale diventa risorsa e attrae investimenti, attenzione, piccole e grandi fabbriche, internazionalità.
È anche per questo, per quell’antico concerto al Madison Square Garden e per il suo stridente contrasto con i fatti di oggi, che non esiste luogo più simbolico del Bangladesh per capire il significato e le implicazioni future della parola “globalizzazione”, che dagli anni ’90 è la linea guida del mondo occidentale. Per affiancare al suo lato luminoso – grandi opportunità, grandi fortune, una ciotola di riso in più per molti – la consapevolezza del suo “dark side”, del suo verso oscuro, riassunto dall’immagine di una banda di pazzi che entrano al ristorante e tagliano la gola ad Adele, Marco, Claudia, Nadia e a tutti gli altri perché sono stranieri, bianchi e non sanno il Corano.
Sembrava tutto così facile fino a qualche anno fa: la fine delle ideologie e della storia, il mercato planetario, gli stati sovranazionali dell’economia e degli affari e i formicai del mondo (il Bangladesh ha 161 milioni di abitanti, l’equivalente della popolazione russa su un territorio 120 volte più piccolo) con il Pil che galoppava crescendo dell’8, del 10, del 12 per cento sotto la spinta delle intraprese del Primo Mondo: automobili, tecnologia, abbigliamento, cumuli di merci a costo basso (o bassissimo) che avrebbero arricchito e plasmato in meglio la vita dei miserabili e dei ricchi. Sembrava tutto oro, per tutti, ma non lo era. Né per “noi” né per “loro”. Perché oltre ai prodotti, alle persone e alle norme commerciali anche il terrorismo si è globalizzato e tra i rischi di questo tipo di avventura si è inserito quello di rimetterci la vita, in qualsiasi momento: mentre si cena in un ristorante esclusivo o ci si attarda nella hall di un hotel in apparenza sicurissimo.
Adele, Marco, Claudia, Nadia, con le loro storie così simili – tutti legati all’industria del tessile, proprietari, manager o addetti al controllo qualità – forse non sono le prime vittime della globalizzazione, ma di sicuro sono le più palesi, evidenti: quelle che gridano al mondo “state attenti, non è un pranzo di gala”. E il brodo di cultura in cui i loro assassini pescano reclute per l’odio anti-occidentale è altrettanto chiaro. Bloomberg ha svolto di recente una eccellente analisi su un paio di jeans “standard” prodotti in Bangladesh, quelli che arrivano da Walmart al prezzo di 22 dollari. Il costo di fabbrica è esattamente 0,90 centesimi. Dentro ci stanno tutte le spese operative, dai salari alle misure di sicurezza: viene considerata la soglia minima per non mettere a rischio di vita i lavoratori.
Ma altri gruppi in mettono commercio jeans che costano la metà, 11 dollari circa, pure quelli Made in Bangladesh. Ecco, se si vuole avere un’idea del mondo capace di odiare i bianchi e gli amici dei bianchi fino al punto di tagliare la gola a persone inermi sedute al ristorante, forse è meglio cominciare da qui piuttosto che dalla religione, che è catalizzatore di rancori più vasti e di trame più complesse del “Dio lo vuole”, una bandiera che quasi sempre nella storia nasconde ben altro.
Il lato oscuro della globalizzazione è in questi numeri, e nelle biografie dei terroristi di Dacca, giovani ben istruiti e di famiglie agiate, spariti all’improvviso per consegnarsi alla clandestinità. Persone che avevano studiato. E noi italiani, che il terrorismo lo abbiamo conosciuto bene, e di capi-reparto e imprenditori gambizzati o finiti con un colpo alla nuca ne abbiamo visto tanti, non dovremmo stentare a riconoscere in quelle storie solo apparentemente incomprensibili la trama dell’insurrezione di classe che ha affascinato larga parte dei figli della borghesia tra i ’70 e gli ’80.
La dittatura del proletariato, il fascino del passamontagna, così come il nazionalismo armato, non sono esclusiva degli operai sfruttati, anzi. C’era gente che leggeva e scriveva, talvolta molto bene, pure tra chi teorizzava la rivolta delle masse operaie qui, non in Bangladesh; un paio di generazioni fa, non nella notte dei tempi.
E allora forse è meglio cominciare a indagarla questa altra faccia della Luna, prendere atto dei suoi tratti altissimi di rischio, tenerli ben presenti qualora si decida di accettarli, e smettere di fare finta che globalizzazione sia una parola neutra, la pura descrizione di un fenomeno come “pioggia” o “sole”. Nulla di ciò che cambia i destini di centinaia di milioni di persone è neutro o neutralizzabile con le parole e i buoni sentimenti. Senza il coraggio di rompere il tabù con una onesta considerazione delle cose, le Dacca rischiano di moltiplicarsi sotto i nostri occhi stupiti.