Il governo Renzi torna all’attacco con le Camere di commercio. In queste ore nei palazzi romani sta circolando una bozza del decreto attuativo (della legge delega del 2015) che dovrebbe essere discusso nel prossimo consiglio dei ministri. E le cose, per le Camere, non si mettono per niente bene. Con la previsione di un taglio, su 7.500 lavoratori, di almeno il 15% dei dipendenti in servizio, pari a circa mille posti di lavoro, più un altro quarto per gli enti accorpati tra loro. L’ennesima sforbiciata di una legge che l’esecutivo presenta come una riforma delle Camere di commercio, ma che – secondo i sindacati e non solo – di riforma non ha niente, visto che al momento oltre ai tagli non sono previsti miglioramenti dei servizi né particolari innovazioni.
La battaglia di Matteo Renzi agli enti camerali ha radici lontane, cominciata quando il presidente del Consiglio ricopriva ancora la carica di presidente della Provincia di Firenze. Arrivato a Palazzo Chigi, con l’obiettivo non troppo nascosto di colpire le associazioni di categoria, che in questi anni hanno di fatto gestito le Camere di commercio, ha subito dichiarato guerra a queste realtà. Che, bisogna precisare, sulle casse dello Stato non pesano, in quanto vivono di vita propria grazie alla “retta” pagata dalle imprese: il cosiddetto diritto annuale, che va dagli 80 euro per le imprese più piccole fino ai 40mila per quelle più grandi.
Ed è proprio la fonte di finanziamento delle Camere che sin dall’inizio è stata colpita, con l’obiettivo dichiarato di alleggerire gli oneri a carico delle imprese: una riduzione del 35% dal 1 gennaio 2015, del 40% dal 2016 e del 50% dal 2017 in poi. Va detto che nel panorama desolante della pubblica amministrazione italiana, le Camere si sono spesso distinte per efficienza. Non che non ci fosse nulla da mettere a posto, tra la necessità di una maggiore internazionalizzazione, sprechi delle partecipate e potentati locali da sfoltire. Ma spesso i bilanci erano a posto e gli interventi economici a sostegno delle imprese il più delle volte si sono rivelati utili. Un tesoretto, quello delle Camere, che secondo gli ultimi bilanci forniti da Istat arrivava nel 2013 a oltre 1,8 miliardi di attivo circolante.
Il punto ora, però, è che con la riduzione del diritto annuale le casse delle Camere di commercio si stanno via via assottigliando. E il bilancio di qualche ente comincia a essere in perdita. D’altronde, l’obiettivo dichiarato dei seguaci della Leopolda prima e di Renzi poi era stato quello di «abolirle» del tutto.
Nel frattempo, da luglio 2014 le Camere si sono autoriformate avviando uno sfoltimento del numero degli enti, che dovrebbero passare da 105 a non più di 60, tramite accorpamenti che garantiscano – secondo quanto si legge nella bozza del decreto – bacini territoriali di riferimento di almeno 75mila imprese (anche se si salvaguarda la presenza di almeno una Camera per regione, e si apre alla possibilità di mantenere una struttura in ogni provincia autonoma, montana e città metropolitana o di aprirne di nuove “tenendo conto delle specificità geo-economiche dei territori). Ad oggi se ne contano ancora 99 (qui l’elenco).
Ma il governo non ha solo falciato i finanziamenti delle Camere. Nel mirino ci sono anche funzioni e competenze. Come emerge nella bozza del decreto attuativo, le competenze degli enti camerali vengono tagliate riducendo soprattutto la funzione di promozione dell’economia locale, compresi i contributi e i finanziamenti alle imprese, il supporto per l’accesso al credito e alla digitalizzazione. Vengono conservati solo i ruoli burocratici di “anagrafe” attraverso il registro delle imprese (che tra l’altro Renzi aveva anche detto di voler eliminare) e la riscossione del diritto annuale dimezzato. E si aggiunge anche la tenuta del Registro nazionale della alternanza scuola lavoro prevista dalla Buona scuola.
Ma con un taglio delle funzioni e delle entrate, dicono i sindacati, il sistema rischia di implodere. Tant’è che il decreto prevede – a differenza degli accordi presi in precedenza sul mantenimento dei livelli occupazionali – una drastica riduzione del personale: “almeno” il 15% per tutte le Camere di commercio, e “almeno” il 25% per le nuove Camere di commercio frutto degli accorpamenti. Per gli esuberi è prevista la mobilità. Ma con gli esuberi delle province che attendono di essere ancora collocati, il rischio è che si crei un effetto imbuto. O che si parta con i licenziamenti per mancanza di posti disponibili nella pubblica amministrazione.
«Un atteggiamento contraddittorio ma chiaro quello del governo», denunciano i sindacati in un comunicato comune, «che parlando di riordino del sistema mira, di fatto, a sopprimerlo attraverso il taglio delle funzioni, delle risorse e del personale, noncurante del valore che esso rappresenta per i territori e per le imprese, nonché delle enormi competenze che esso è stato in grado di esprimere». Un’agonia, quella degli enti camerali, che dura ormai da un paio d’anni in attesa del colpo di grazia finale. Che, dopo tutto, era già stato dichiarato dal premier all’inizio della sua battaglia contro le Camere di commercio italiane.