Partiamo dalle banalità: gli artisti sono esseri solitari. Impegnati come sono nella ricerca dell’arte non riescono, o non vogliono, vedersi come parte di altro. Non si riuniscono in comunità, non ragionano per consorterie, a fatica collaborano, sempre pensando alla propria arte. Quando, penso alla musica, capita di vedere più artisti riuniti in un unico progetto, spesso per finalità benefiche, è sempre sotto la guida di un nome, di un ingegno. Gli artisti sono esseri solitari, nascono soli, vivono soli, muoiono soli. Ultimamente, viene da dire, prevalentemente muoiono. Non aspettatevi di leggere qui, in questa sede, la storia dell’anno bisestile, del 2016 a cui guardare come all’Apocalisse. E non aspettatevi neanche di leggere qualcosa con pretese più storie, tipo che è normale che di colpo scompaiano così tanti nomi nati in un arco di tempo relativamente ristretto, perché questa teoria, forse, è la più traballante di tutte.
No, ultimamente gli artisti muoiono, e lo fanno, questo sì, con uno spirito di gruppo che mai si era visto prima tra spiriti liberi votati all’arte e alla creazione. Fare l’elenco dei cantanti, registi, scrittori e poeti che, nel corso di questo 2016, ci hanno lasciati, è il caso di dirlo, è quasi impossibile, a meno che non si voglia stendere una lenzuolata lunghissima. Nel corso di questi mesi ne sono morti davvero tantissimi, con un piccolo significativo prologo nel volgere del 2015, quando neanche troppo improvvisamente morì colui che in qualche modo rappresentava con ogni sua cellula il rock, e quindi l’immortalità, Lemmy dei Motorhead, per proseguire con un infausto ultimo dell’anno che si portava via il giovanissimo rapper romano Primo Brown, e poi, subito dopo, Pierre Boulez, David Bowie, Franco Citti, Alan Rickman, Glenn Frey degli Eagles, Ettore Scola, Black, Paul Katner, Umberto Eco, George Martin, Keith Emerson, Riccardo Garrone, Johan Cruyff, Paolo Poli, Gianmaria Testa, Giorgio Calabrese, Gato Barbieri, Prince, Katherin Dunn, Muhammad Alì, fino a arrivare agli ultimi giorni, Bernie Worrelle dei Funkadelic, Bud Spencer, Yves Bonneffoy, Geoffrey Hill, Michael Cimino, Abbas Kiarostami e anche Valentino Zeichen. Una ecatombe. Uno legge questa lista, che è parzialissima, e che mette insieme vari gradi di poesia e arte, e si ritiene autorizzato a prestare fede a qualsiasi astrusa teoria sul perché, in effetti, di colpo stiano morendo tutti, ma proprio tutti tutti.
Avranno pensato tutti: “Noi ci abbiamo provato e ci siamo riusciti, se non sapete far meglio che lamentarvi, addio”
Perché passi per George Martin, storico produttore dei Beatles, che aveva novantaquattro anni, ma Prince, per dire. Prince non ne aveva neanche cinquantotto, chi se lo poteva mai aspettare? Passi per Paolo Poli, o Bud Spencer, ma vedere partire, nel giro di poche ore, Cimino e Kiarostami, o Bonneffoy e Hill, santo Iddio, no, è davvero troppo. Allora viene da pensare, e viene da pensare non perché la disperazione abbia preso il sopravvento, né perché di fronte a tanta morte anche le idee più stravaganti possano prendere credibilità, ma proprio perché se l’idea espressa in esergo riguardo la scarsa idea di comunità degli artisti ha un senso, forse è il caso di provare a fare un’analisi che metta insieme i puntini, che spieghi non tanto perché così tanti nomi se ne siano andati, o meglio, diciamo le parole giuste per raccontare le cose, così tanti nomi siano morti tutti nel giro di poche settimane.
Il punto, credo, è che gli artisti si sono rotti il cazzo. Sì, se di colpo si sono uniti in gruppo e come i Lemmings hanno deciso di togliersi di mezzo, buttandosi giù da un metaforico burrone in cerca della fine, è perché non ne potevano e non ne possono più. Prima di inarcare il sopracciglio provate a seguirmi, perché il ragionamento è molto meno bizzarro di quanto non potrebbe sembrare. Molti dei nomi che ho citato, se non tutti, sono arrivati a essere chi erano, o forse, trattandosi di artisti, toccherebbe dire, sono arrivati a essere chi sono grazie a una dedizione e una passione pari solo al loro talento. Inutile soffermarmi nelle singole vicende personali, ma la storia è piena di artisti che, per inseguire la propria arte, hanno vissuto vite dense di ostacoli, fatte di frustrazioni, di dolori, di incomprensioni.
E non pensiate certo che, avendo infilato nella lista nomi di rockstar o di celebrità assolute, penso a un Muhammad Alì o a un Prince, la teoria faccia cilecca. Andatevi a leggere le rispettive biografie e troverete, a fianco di tanti successi, tanti ostacoli da superare, tante difficoltà in partenza, spesso, ma anche in itinere. Essere artisti non è certo una condizione di benessere. Dietro la creazione, e non sto certo qui io a spiegarvelo, c’è un lavoro che spesso non viene neanche considerato tale in vita. Ciò nonostante, nostante gli ostacoli, le frustrazioni e le difficoltà gli artisti in questione, nei rispettivi campi, hanno tutti lasciato un segno importante nella nostra cultura, si tratti di cultura alta, come nel caso dei poeti, o di cultura popolare, come nel caso di un Cruyff o di un Bud Spencer. Capisci di essere un artista, accetti questa tua condizione, cerchi la tua strada, la rincorri in tutti i modi e realizzi la tua condizione.
Tutto questo guardare al domani come un posto poco raccomandabile, questo aver abdicato al sacrosanto diritto di credere in qualcosa e di faticare per costruirlo, deve essere davvero stato troppo per chi, invece, ha fatto della propria carne e del proprio sangue la benzina con cui far muovere il motore della creazione e dell’arte
Ora, pensate a gente che se l’è sudata in questa maniera, che ha superato i pregiudizi di chi li vedeva, magari, come saltimbanchi, come radical chic poco propensi al lavoro, come gente poco seria, se non addirittura degenere. Pensate a queste persone e poi pensate al momento in cui stiamo vivendo. Un momento in cui la speranza sembra essere stata non solo uccisa, ma dimenticata. In cui il precariato è diventato talmente stabile, come condizione, da aver reso una intera generazione ostaggio del proprio futuro, con conseguente continuo piagnisteo di fondo. Un momento in cui si tende a lamentarsi delle generazioni che ci hanno precedute, del tutto non intenzionate a lasciarci il posto, tanto quanto delle generazioni che ci seguono, lì a spingere per farci scarpe che ancora non abbiamo neanche indossato. Insomma, un momento in cui la cupezza di fondo che ci attanaglia trova nutrimento in noi stessi, come i vampiri dei film che, non a caso, tanto sono tornati di moda negli ultimi tempi (al pari, e anche questo non è un caso, dei telefilm sugli zombie).
Tutto questo, tutto questo guardare al domani come un posto poco raccomandabile, questo aver abdicato al sacrosanto diritto di credere in qualcosa e di faticare per costruirlo, questo esserci autoproclamati protagonisti di un romanzo apocalittico degno di un Cormac McCarthy deve essere davvero stato troppo per chi, invece, ha fatto della propria carne e del proprio sangue la benzina con cui far muovere il motore della creazione e dell’arte. Lemmy, che era sì la quintessenza del rock, con le sue cisti, i suoi baffi a manubrio, la sua vita sempre oltre il confine che delimita il lecito dall’illecito, le sue massime destinate tutte a diventare leggenda, e soprattutto la sua musica così dannatamente, mai avverbio fu più appropriato, rock, ma che è stato il primo a capirlo. Lui, figlio del cappellano dell’Air Force che abbandonò la famiglia quando Lemmy aveva appena tre mesi, ha fatto del proprio essere stato abbandonato un punto di forza, come lo ha fatto della sua profonda avversione verso la religione, identificata appunto nel lavoro di suo padre, finendo per diventare una delle più leggendarie icone del rock. Di fronte a questo piagnisteo continuo deve aver detto, “e che cazzo, vi saluto”. Lo hanno seguito a ruota in tanti, si suppone non tutti usando il medesimo linguaggio, ma sicuramente unendosi all’attitudine del rocker inglese: “Noi ci abbiamo provato e ci siamo riusciti, se non sapete far meglio che lamentarvi, addio”. Così hanno cominciato ad andarsene alla spicciolata, scatenando un domino mortuario senza precedenti
Ultimo della lista Valentino Zeichen, poeta squattrinato, impenitente donnaiolo che così tanto aveva incarnato per le donne della borghesia romana il prototipo del maudit fascinoso. Lui che ultimamente era finito in vera disgrazia, malato e impossibilitato a sopravvivere nella sua baracca lungo il Tevere, tanto che era stata tirata in ballo la Legge Bacchelli, deve aver aderito alla mozione Lemmy e aver mandato tutti a cagare, a partire proprio dalle tante signore romane tra le cui carni si era così divertito quando, seppur senza soldi e senza speranze di farne, ma arso dal fuoco della poesia, aveva deciso fare della sua stessa esistenza poesia.
Adesso attendiamo di sapere chi sarà il prossimo a mettere il proprio nome in calce a questa lunghissima lista. Sappiate solo che, visto che è per i vostri piagnistei e lamenti che se ne stanno andando, correre poi a compiangerli sui social con frasi a effetto e aneddoti personali spesso inventati non farà che peggiorare la vostra posizione, quando un giorno, si spera non troppo lontano, arriverà l’Apocalisse vera, quella della Bibbia, con i serpenti schiacciati dalla Madonna, le folle che si muovono in cerca di salvezza e un Dio piuttosto scorbutico che non sembra affatto intenzionato a passare una mano di bianchetto sul vostro curriculum.