Una cacofonia da dilettanti allo sbaraglio, che fa solo male alle istituzioni europee e ai soggetti economici che deve regolare. In primo luogo alle banche. Così ha gioco facile un giornale come l’Economist a sparare a zero sull’Europa e a dire che la fine dell’euro si avvicina. Oggi, spiega Andrea Goldstein, economista e managing director di Nomisma, è il momento di ridare centralità alla Commissione. E soprattutto di recuperare la fiducia reciproca all’interno dell’Unione. Mentre sulle banche italiane la soluzione migliore non è il Tarp ipotizzato da Luigi Zingales, ma una soluzione ad hoc per Mps.
Dottor Goldstein, ha letto l’Economist, il pullman italiano sull’orlo del baratro?
Sì. Che il settore soffra, che sia in sofferenza è in dubbio. Che questo sia il combinato disposto di una crisi del sistema bancario, di una crisi del Paese negli anni della recessione, della mancata crescita adesso e della difficoltà del settore bancario di canalizzare delle nuove risorse per il settore imprenditoriale è bene ricordarlo. I nessi di casualità sono molteplici ma in certe interpretazioni delle scorse settimane si è perso questo quadro. Forse non a caso. Non voglio fare complottismo, ma questo improvviso interesse dei britannici mi sembra pretestuoso. Secondo me i britannici hanno i loro problemi e forse potrebbero concentrarsi a risolvere quelli, invece che mettere il dito nelle piaghe dell’Europa continentale.
L’articolo dell’Economist, oltre a una ricostruzione nota dei problemi bancari italiani, ha due punti forti. Uno è negativo. Dice senza mezzi termini che è a rischio la tenuta dell’euro anche nel breve termine. C’è questo rischio?
C’è un rischio. Le banche italiane hanno problemi e non è stata trovata una soluzione strutturale di lungo periodo. Ma, detto questo, anche un anno e mezzo fa sembrava che l’Europa fosse sul punto di non ritorno, e invece si è salvata, anche se la questione greca era di una magnitudine molto maggiore. Per questo non esagererei con gli scenari catastrofici. Non c’è dubbio che, se ci fosse il fallimento dell’Mps, non sarebbe sicuramente una cosa positiva, né per la banca né per gli obbligazionisti, né per i correntisti, né per l’Italia né per l’Europa. Né si può negare che in Italia i problemi sono stati minimizzati, come lo furono in precedenza con il debito sovrano. Ma non dobbiamo avere un complesso di inferiorità rispetto ai britannici. Quando diciamo “l’Economist ha scritto”, sembra che sia la parola sacra.
Nell’articolo c‘è anche un punto positivo, quello in cui si parla di uno spiraglio, che potrebbe essere permanente o di sei mesi.
Un intervento permanente penso che non sia possibile e non sarebbe neanche auspicabile. Invece in forma temporanea un intervento di urgenza, ovviamente con l’approvazione da parte della Commissione e a condizione di certe misure di ripulitura e ristrutturazione del settore, mi sembra che sia possibile e auspicabile.
A quel punto, suggerisce l’Economist, si dovrebbe forzare di più la mano sulle fusioni e sui tagli delle filiali. È un passaggio inevitabile?
Per forza, ci sono tre elementi da considerare. Il primo è che semplicemente ci sono troppe filiali, in assoluto, e che rispondono a un numero eccessivo di istituti di credito. Il secondo è che il mestiere della banca oggi si fa in maniera diversa, ormai anche in un Paese indietro sul digitale come l’Italia c’è una dematerializzazione delle attività. Il terzo è che è il sistema bancario stesso a essere destinato ad avere un’importanza minore in futuro. Ci sono già tre buoni motivi per cui cambierà lo scenario in quella direzione.
«Non esagererei con gli scenari catastrofici. Non c’è dubbio che, se ci fosse il fallimento dell’Mps, non sarebbe sicuramente una cosa positiva, né per la banca né per gli obbligazionisti, né per i correntisti, né per l’Italia né per l’Europa. Né si può negare che in Italia i problemi sono stati minimizzati. Ma non dobbiamo avere un complesso di inferiorità rispetto ai britannici. Quando diciamo “l’Economist ha scritto”, sembra che sia la parola sacra»
La sentenza della Corte di Giustizia europea, che arriverà il 19 luglio sul tema dell’aiuto alle banche senza obbligo di far pagare gli azionisti, potrebbe cambiare lo scenario?
Mi sembra che i testi europei consentano già un intervento preventivo nel caso in cui ci siano delle criticità in una banca che rendano impossibile la ricapitalizzazione sul mercato. È però imbarazzante la cacofonia degli annunci in Europa.
In che senso?
Un giorno Mario Draghi (il presidente della Bce, ndr) dice una cosa, un giorno parla un commissario, un altro l’Eba (l’autorità bancaria europea, ndr). Senza pensare a chissà cosa ci sia dietro, mi pare che queste uscite dimostrino un certo dilettantismo. Sono rari gli interventi, come quelli del presidente dei liberali dell’Alde al Parlamento europeo, Guy Verhofstadt, che chiedono di rafforzare l’Europa (attraverso un percorso di riforme che si accompagni a una visione, ndr). Si sentono invece opinioni contrastanti, spesso a mercati aperti.
Anche le fughe di notizie sulle banche prima degli stress test stanno creando un aspetto paradossale: che le banche risultino indebolite da uno strumento che dovrebbe rafforzarle.
Certamente. Senza essere troppo dietrologici, non vorrei che queste fughe di notizie fossero il segno di una debolezza dell’Italia. Non vorrei che, anche se Renzi viene invitato negli incontri ristretti con Francia e Germania, l’Italia venga vista ancora come il vaso di coccio dell’Europa. Mi chiedo se con una grande banca tedesca un leak alla stampa sarebbe stato dato. Magari l’Eba a qualcuna ha scritto.
«Non vorrei che la fuga di notizie sulla lettera dell’Eba a Mps fosse il segno di una debolezza dell’Italia. Non vorrei che, anche se Renzi viene invitato negli incontri ristretti con Francia e Germania, l’Italia venga vista ancora come il vaso di coccio dell’Europa. Mi chiedo se con una grande banca tedesca un leak alla stampa sarebbe stato dato. Magari l’Eba a qualcuna ha scritto»
A proposito di cacofonia, ora Angela Merkel ha di fatto degradato il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, e rilanciato la centralità degli Stati membri. Già ora i dossier su Spagna e Portogallo passeranno dal Consiglio europeo.
È un errore. Bisognerebbe piuttosto rafforzare la Commissione. Con un paradosso, si potrebbe proporre di mandare la Merkel al posto di Juncker. C’è bisogno che la Germania si faccia pieno carico della responsabilità del suo ruolo in Europa. Anche la vicenda dell’accordo commerciale tra Ue e Canada, che ora dovrà passare da tutti i Parlamenti nazionali, è preoccupante.
La Merkel si è dimostrata uno dei pochi leader con visione di lungo periodo…
Aspetti, non sono d’accordo. Ha avuto una visione di lungo periodo nell’estate 2015 sulla questione dei rifugiati, ma poi ha dimostrato di non avere una tattica a supportare la strategia. Inoltre non sono neanche vicini a essere risolti problemi come quello dei debiti sovrani. È stata anche sbagliata la gestione della Brexit. Il primo errore è stato concedere a Cameron tutte quelle eccezioni. Se il Regno Unito fosse rimasto nell’Unione, si sarebbero creati precedenti che avrebbero portato a nuove richieste.
La Merkel, in ogni caso, avrà modo di decidere con una visione di lungo periodo o avrà le mani legate dalle elezioni del 2017?
Le elezioni peseranno, è normale ed è giusto così. Non siamo in Cina dove le politiche si possono fare senza tenere conto dell’opinione pubblica. Certamente i dubbi sulla stabilità europea verranno più dalla Germania che dalla Francia. In Francia si va verso la vittoria alle primarie del partito di centro-destra Ump di Alain Juppé, che sarà probabilmente il nuovo presidente. In Germania invece il quadro è più complicato e ci sono dubbi anche su come si muoverà la Cdu, soprattutto se vorrà fare una campagna nel segno di rottura con la Grande Coalizione oppure no.
«Il problema fondamentale, oggi, mi sembra la mancanza di fiducia reciproca. Si rendono le regole sempre più stringenti proprio perché non c’è fiducia. Se si gioca sui titoli di Stato si creerebbero comunque altri problemi, come la valutazione dei derivati in pancia alle banche tedesche»
Tornando alle banche Italiane, si sono fatte diverse ipotesi su quale possa essere l’intervento strutturale pubblico che possa essere più efficace, ammesso che ce ne sia data la possibilità. L’economista Luigi Zingales ha detto che, sulla base dell’esperienza americana del Tarp, la cosa migliore sarebbe entrare nel capitale di tutte le banche.
Farei attenzione a una soluzione sistemica come il Tarp. Per il momento in Italia il problema sembra concentrarsi su Mps.
In questi giorni si parla tanto di rivedere il bail-in. Ma non sarebbe meglio prendere per le corna il toro dell’Unione bancaria? Ossia, come chiede la Germania, capire se e come sia possibile far abbassare i titoli di Stato detenuti dalle banche italiane?
C’è senz’altro un grosso rischio nel ritoccare continuamente le regole esistenti. Il problema fondamentale, oggi, mi sembra la mancanza di fiducia reciproca. Si rendono le regole sempre più stringenti proprio perché non c’è fiducia. Se si gioca sui titoli di Stato si creerebbero comunque altri problemi, come la valutazione dei derivati in pancia alle banche tedesche.
A proposito, Renzi ha fatto bene a usare politicamente l’esposizione ai derivati della Deutsche Bank?
Non so, è un argomento in una contrattazione politica. Non so se stia a un politico parlare del rapporto tra Npl e derivati. Quello che so è non dovremmo lasciare Mario Draghi da solo a parlare della necessità di fare politiche per la crescita.