Le industrie del tech hanno un problema con lo sfruttamento dei lavoratori. Non è (sempre) una questione di scarso interesse per i dipendenti: i componenti di un device elettronico sono centinaia, molti di questi consistono di materie prime semplici e vengono estratte in Paesi in cui la cultura del rispetto per i lavoratori è piuttosto scarsa. In generale, per varie ragioni, le grandi aziende subappaltano ed esternalizzano ad altre aziende, più piccole e distanti, sulle quali è difficile avere il controllo. Si aggiunga che il benessere dei lavoratori, infine, non è proprio in cima alle loro priorità. Risultato: un mare di abusi.
Lo sostiene un report di KnowTheChain, una organizzazione non profit attenta a questo tema. Alcune aziende, va detto, sono più virtuose di altre. Conoscono il problema, sanno in quali modi possano essere commessi abusi nei confronti dei lavoratori e cercano, nel limite delle loro possibilità, di impedirli. Ad esempio (e questa è una sorpresa), la Apple.
Finita più volte nel mirino per le condizioni di lavoro alla Foxconn (un’attenzione provocata da una serie di suicidi), la Apple ha deciso, per ragioni di reputazione, di aumentare i controlli nella sua catena di produzione e distribuzione. Questo dimostra che le azioni dimostrative e le proteste, quando c’è di mezzo il business, servono. Sopra la Apple, che ha comunque un punteggio di 62 su 100, cioè non altissimo, c’è la Hp, che ha raggiunto un livello ragguardevole: 72. Questo grazie a una policy unica (nel senso che è la sola a utilizzarla) nei confronti dei fornitori: chiede loro di assumere in via diretta i dipendenti anziché affidarsi a terzi.
Altre aziende, soprattutto quelle giapponesi, si distinguono invece in negativo. La Canon, ad esempio, ha solo 12 punti. Mentre Keyence arriva a quota zero. Il peggio possibile.
Di solito, come fanno notare qui, il lavoro subordinato viene sottoposto a dinamiche schiaviste soprattutto quando nel caso dei lavoratori migranti. Costretti a pagare le commissioni per le agenzie di collocamento, si trovano obbligati a chiedere soldi e a indebitarsi. È l’antica trappola del debito, quella con cui si riesce, dai tempi delle deportazioni dei neri d’Africa nelle Americhe, a incastrare le persone e incatenarle (spesso non come metafora) al posto di lavoro. In Malesia almeno un terzo dei lavoratori migranti si trova, secondo i calcoli della di KnowTheChain, in situazione di lavoro forzato.