Viva la FifaVentura, che libidine di commissario tecnico

A Bari è divenuto famoso per una frase, ma non solo: in biancorosso come a Pisa e Torino ha incrociato la propria carriera con quella del predecessore Conte: tocca ora a lui portarci al Mondiale di Russia del 2018

La leggenda narra che quando Giampiero Ventura aprì il suo nuovo armadietto da allenatore del Bari, trovò dentro i dvd con registrate le partite del Pisa. Nessun mistero, nessuno spionaggio: fa parte del lavoro degli allenatori osservare la tattica degli avversari, per poter preparare al meglio le partite e continuare quel continuo aggiornamento dopo il super corso di Coverciano. Poi ognuno lavora con quel che ha a disposizione: negli anni dell’Inter, Josè Mourinho si avvaleva della collaborazione di un tattico (il mitologico Villas Boas) che preparava dettagliatissime relazioni sugli avversari da affrontare. Dunque, nulla di strano, anche nel caso barese: i dirigenti della squadra pugliese assunsero Ventura perché proseguisse idealmente il lavoro impostato da Antonio Conte, che aveva riportato in Serie A il Bari con un gioco aggressivo, offensivo, a tutto campo. Insomma, quello che Ventura aveva praticato con un certo successo a Pisa, da dove arrivava.

Non sappiamo cosa troverà Giampiero Ventura, quando aprirà l’armadietto da commissario tecnico della nazionale italiana di calcio. Forse qualche video del Torino, voluto da Antonio Conte per osservare chi ha convocato (Immobile, Zappacosta e Benassi, quest’ultimo poi tagliati dalla lista finale degli Europei) e chi magari avrebbe voluto e poi meglio di no, meglio lasciarli a Ventura, come magari Belotti.

Esiste quindi un filo rosso che lega la scelta di Ventura come nuovo tecnico dell’Italia da parte della Federcalcio al suo predecessore. Una scelta prima di tutto tattica: entrambi hanno giocato con il 4-2-4 e con il 3-5-2. Il primo modulo è quello del lancio o del rilancio di una carriera. Conte ha portato in A il Bari con quel modulo, impresa replicata con il Siena. Ventura lo ha usato a Pisa, dove nel 2007 arrivò sulla panchina dei neopromossi toscani per dare una lustrata a un curriculum che proprio nella cadetteria lo aveva visto dover segnare due mancate promozioni in A, con la Sampdoria e l’Hellas. Proprio l’esperienza blucerchiata resta la più amara: arrivato sulla panchina della squadra dove aveva giocato e per la quale faceva il tifo, Ventura aveva mancato la A di un soffio, arrivando quinto quando salivano le prime quattro.

Non sappiamo cosa troverà Giampiero Ventura, quando aprirà l’armadietto da commissario tecnico della nazionale italiana di calcio. Forse qualche video del Torino, voluto da Antonio Conte per osservare chi ha convocato (Immobile, Zappacosta e Benassi, quest’ultimo poi tagliati dalla lista finale degli Europei) e chi magari avrebbe voluto e poi meglio di no, meglio lasciarli a Ventura, come magari Belotti.

«Quell’annata mi ha cancellato. È davvero impossibile essere profeti in patria», dirà di quella stagione, arrivata dopo anni di esperienze a loro modo esaltanti. Intanto, è resistito più di una stagione con Massimo Cellino, ai tempi di Cagliari. E poi le imprese in Coppa Italia con il Venezia, quando eliminò Juventus e Fiorentina. In laguna Ventura allenava senza il patentino, così figurava come vice, anche se era lui a decidere che i suoi dovevano giocare con il 3-5-2: finì con il sesto posto finale a quota 50 punti. L’anno dopo verrà licenziato alla seconda giornata, perché Zamparini si era messo in testa che doveva avere Gigi Maifredi. Ventura dovrà sopportare il tradimento e gli sfottò del presidente: «Scriveva libri, voleva fare l’intellettuale: così lo chiamavo, l’allenatore intellettuale». Quando lo richiamerà, Ventura allenerà senza il sorriso. Accigliato, ombroso. Altro licenziamento. Anche quello è forse un passaggio chiave della sua carriera. Spesso nelle interviste si presenta senza cravatta, un velo d’abbronzatura di chi ama il mare e d’ironia di chi il microfono non lo disturba. Ma sul lavoro lo descrivono come più duro e intransigente. Dicono anche permaloso.

Ma è Pisa si diceva un grande crocevia della carriera, per Ventura. Che arriva in nerazzurro tra mille dubbi, perché dopo la promozione la rosa non è granché: molti ragazzi sono in prestito e tornano alla casa madre, mentre quelli di proprietà sono buoni giocatori, ma forse inadatti a una categoria superiore. Il presidente del club, aiutato da direttore sportivo Petrachi, chiama Ventura per affidargli un gruppo assemblato con caratteristiche simili a quello dell’anno prima. Acquisti mirati e dal basso costo come Josè Castillo (cinque gol con il Frosinone l’anno prima) e Vitaly Kutuzov, di cui Adriano Galliani si era prima innamorato e poi sbarazzato dal Milan e finito al Parma, dove non aveva brillato. In prestito dalla Roma arriva il laterale Alessio cerci: di lui si dice un gran bene tecnicamente, meno della testa. In porta c’è Daniele Padelli, che sembra più un taglialegna dal fisico che si ritrova. Insomma, questo passa il convento. A ferragosto, all’esordio stagionale in Coppa Italia, il Brescia viene sconfitto 2-1 in rimonta. Il gol della vittoria arriva al 92’: assist di Cerci, gol di Castillo. Alla fine di quella stagione saranno 71 i punti, cioè sesto posto e playoff, mica playout. Ma quel che conta non è nei risultati. La squadra viene smantellata, l’anno dopo Ventura verrà mandato via nonostante la posizione tranquilla in classifica. Prima di andarsene – e prima del fallimento del club dopo la retrocessione a fine anno – Ventura ha il tempo di lavorare con un giovane difensore centrale di cui dicono un gran bene: Leonardo Bonucci. Lo ritrova a Bari, dove assieme a un altro giovane come Andrea Ranocchia devono difendere la porta del Bari dalla “palla che frulla”.

Spesso nelle interviste si presenta senza cravatta, un velo d’abbronzatura di chi ama il mare e d’ironia di chi il microfono non lo disturba. Ma sul lavoro lo descrivono come più duro e intransigente. Dicono anche permaloso.

Nasce qui il Ventura delle frasi famose, del «Se vuoi, puoi» e soprattutto del suo esordio in conferenza stampa di presentazione con un «Ormai alleno per libidine» che lo rende a suo modo famoso ma che è soprattutto l’ennesima evoluzione della sua carriera, quella che lo accompagna tra la Puglia e il granata del Toro. Ed è la fase del Ventura maturo, che lavora ai margini del grande giro dove nel frattempo è finito Conte. «Quando ho iniziato io andavano di moda i grandi saggi. Ora che potrei essere considerato un saggio, vanno di moda i giovani. Questa è sfortuna. Ma ci sono anche delle colpe. Ho pensato ad esempio che fosse più importante essere che apparire: mi sbagliavo. Puoi fare l’impresa più grande, ma se non c’è nessuno che ne parla è come se non avessi fatto nulla», racconterà qualche anno dopo, quando è già al Torino. Dall’altra parte, sponda Juventus, c’è appunto Antonio Conte. Entrambi con il 3-5-2, dopo che il bianconero aveva più che accarezzato l’idea di provare a vincere subito alla Juve con il 4-2-4.

Ma Torino non è ai margini del calcio. O forse sì. Non certo per storia, ma il presente di quando Ventura arriva non è dei migliori, con la tensione densissima tra i tifosi e Urbano Cairo, ex delfino di Berlusconi che sta investendo nel pallone ma senza frutti. Quelli glieli porta Ventura, che riporta la squadra in Europa ed è il primo italiano a vincere a Bilbao, lancia giovani come Ogbonna, rivitalizza nuovamente quel Cerci che dopo Pisa e un brutto infortunio stava sparendo dai radar del calcio, rende Ciro Immobile capocannoniere della Serie A. Bonucci, Ogbonna, Immobile: tutti scelti da Conte per l’Europeo. Ed è qui che si trova l’ultimo capo del filo che lega Ventura a Conte, Conte a Ventura: l’ex ct è rimasto nel calcio che conta andando al Chelsea, Ventura ora è il nuovo ct: alla fine, per lui, essere è contato più di apparire.

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