Quando, a febbraio, è stato dato l’annuncio ufficiale dell’arrivo di Starbucks in Italia, è finita una telenovela che durava da anni. La grande anomalia italiana, cioè la mancata presenza nel nostro Paese della catena di caffetterie più nota e diffusa al mondo (23mila punti vendita), aveva alimentato gruppi su Facebook che ne chiedevano messianicamente la discesa nel Paese. Negli anni era proliferata una mezza dozzina di annunci-bufala, si erano immaginate oscure trame di oppositori (si additava il gruppo Autogrill, che del marchio gestisce molti locali negli aeroporti), erano stati creati dei format a immagine e somiglianza di Starbucks, come la mini-catena Arnold’s a Milano: talmente simile all’originale che, si sussurrava, era tollerata proprio come test per il mercato italiano.
A questa manfrina ha posto termine il gruppo Percassi. Quando arrivò l’annuncio che le cose erano davvero fatte, dopo un incontro con il fondatore di Starbucks Howard Schultz, favorito da Angelo Moratti (figlio di Gian Marco), la cosa fu sorprendente. Antonio Percassi, il 63enne ex calciatore dell’Atalanta, nel frattempo diventatone presidente, da 40 anni esatti si divideva tra immobili e negozi, a partire dal primo accordo con i Benetton nel 1976. Ma mai si era occupato di ristorazione, eccezion fatta per la piccola insegna Da30Polenta, che da un paio d’anni stava diffondendo il verbo della polenta bergamasca tra i centri commerciali lombardi e la nuova piazza Gae Aulenti a Milano. Eppure, un campanellino doveva suonare. Il 18 novembre del 2015 era stata creata la società Percassi Food & Beverage, amministrata da uno dei sei figli di Antonio, Matteo. Consigliere è Mario Volpi, il commercialista bergamasco che siede in molti cda del gruppo e che rappresentò i Percassi nel board di Alitalia, prima dell’arrivo di Etihad. In molti pensarono che quella società non si sarebbe limitata ad accogliere una sola insegna: la storia del gruppo nella moda racconta che un marchio ha sempre finito per tirare l’altro: Zara e i suoi fratelli del gruppo Inditex (da Massimo Dutti a Oysho), Nike, Ferrari Store, Swatch e molti altri, tra cui la recente acquisizione Vergelio, tutti sotto il manzoniano cappello de L’Innominato spa.
Antonio Percassi, il 63enne ex calciatore dell’Atalanta, nel frattempo diventatone presidente, da 40 anni esatti si divideva tra immobili e negozi, a partire dal primo accordo con i Benetton nel 1976. Ma mai si era occupato di ristorazione, eccezion fatta per la piccola insegna Da30Polenta
E così, in effetti, è stato. All’inizio di luglio un altro marchio-mito della ristorazione internazionale è arrivato in Italia. Si tratta di Wagamama. È una catena di “casual dining”, vale a dire un paio di gradini sopra i fast food, che è stata fondata nel 1992 a Londra dall’imprenditore di Hong Kong Alan Yau. È stata l’insegna che ha fatto capire che il cibo giapponese non era solo sushi, ma anche se non soprattutto ramen. Ed è stata una storia di grande successo: anche se i locali non sono tantissimi, 140 di cui 120 nel Regno Unito, con la sua cucina a vista e i suoi prezzi accessibili è stata fonte di ispirazione per svariate locali e insegne. In Italia, tra gli altri, è stato il punto di riferimento per Wok Italia, 10 locali soprattutto tra centri commerciali e stazioni di Roma e Milano. “Quando arriva Wagamama?” era un’altra delle domande ricorrenti nell’ambiente. Anche in quel caso ci sono stati i rumors (come sul mensile retail & food di aprile 2016), poi l’annuncio che l’ingresso ci sarebbe stato e sarebbe avvenuto con i Percassi. Il debutto sarà a Milano entro la fine del 2016; nella stessa città aprirà Starbucks, nel 2017.
Ora le domande sono tre: seguiranno altri sbarchi di marchi? Perché Percassi si butta sul cibo? E perché marchi che erano stati ben lontani dalla Penisola per anni si sono affidati proprio al gruppo bergamasco? «Non c’è il minimo dubbio: ci saranno altri arrivi», risponde alla prima domanda Davide Cavalieri, titolare della società di consulenza Cavalieri Retailing, specializzata nel retail e ristorazione. «Una volta che conosci il percorso in un settore difficilissimo come quello della ristorazione e una volta volta che hai creato una società ad hoc, non puoi che andare avanti».
«Non c’è il minimo dubbio: dopo Starbucks e Wagamama ci saranno altri arrivi. Una volta che conosci il percorso in un settore difficilissimo come quello della ristorazione e una volta volta che hai creato una società ad hoc, non puoi che andare avanti»
Anche perché, secondo il consulente, «il passaggio alla ristorazione è stato obbligatorio». Il motivo è che la quota della spesa delle famiglie investita nell’abbigliamento e nella ristorazione si è invertita negli ultimi 20 anni. «L’abbigliamento è passato dal 15 al 5% della spesa, mentre la ristorazione fuori casa passava dal 3 al 15 per cento. Se si vuole è un paradosso: stiamo a guardare sempre più i programmi di cucina ma finiamo per uscire sempre più a cena fuori». La ristorazione, però, si diceva, è «pericolosissima», aggiunge Cavalieri: «Rispetto alla moda hai tre difficoltà in più: il cibo deperisce molto velocemente, l’incidenza del costo del personale è maggiore e il tasso di fedeltà dello stesso personale è inferiore». Per questo è necessaria una specializzazione: marchi blasonati in passato sono arrivati e si sono affossati dopo poco. Uno degli ultimi è Nordsee, arrivato dalla Germania nell’outlet di Vicolungo (No), salvo poi far perdere le tracce; in precedenza si erano interrotti sul nascere l’arrivo della catena di pizzerie “made in New York” di Sbarro. E qui si arriva alla risposta alla terza domanda: «I Percassi oggi sono diventati i più grossi retailer per competenza in Italia – commenta il consulente -. Sono paragonabili ai Coin di 20 anni fa. Il tempo in cui erano principalmente immobiliaristi e gestivano il personale attraverso le agenzie interinali è passato. Oggi hanno sviluppato un sistema avanzato di gestione delle risorse umane e di controllo di gestione».
C’è un ultimo tassello: «In Italia c’è spazio per il food: come nell’hotellerie ci sono pochi brand, non c’è stato un grande sviluppo, tutto sommato neanche nella qualità», dice Cavalieri. Milano, in particolare, quanto a recettività del cibo etnico sta come Londra al Regno Unito. «Milano è lo specchio di tutto il movimento – ha scritto su Linkiesta Maurizio Bertera – : sulle 10mila imprese straniere che si occupano di cibo (quindi, anche negozi e negozietti) in Italia, un migliaio si trovano sotto la Madonnina e rappresentano ormai il 15% del totale e fatturano poco meno di un milione di euro. A Roma siamo poco sotto il 10 e a Torino sul 5. Altro dato interessante: un milanese su tre mangia cibo etnico una decina di volte all’anno. Impensabile sino a dieci-quindici anni fa».
Che i Percassi stiano abbandonato la moda a vantaggio del cibo è forse esagerato. Ma una certa tendenza si può vedere Negli ultimi anni il gruppo ha smesso di gestire vari marchi di moda, come Levi’s e Tommy Hilfiger. I maggiori investimenti sono stati nella cosmetica, in particolare con Kiko
Che i Percassi stiano abbandonato la moda a vantaggio del cibo è forse esagerato. Ma una certa tendenza si può vedere. Nel 2010 è stato chiuso il rapporto storico con i Benetton. Una liason che aveva portato i Percassi a gestire, come master franchisee, un centinaio di punti vendita e che cominciò a incrinarsi nel 2001, quando la società bergamasca portò in Italia gli spagnoli di Inditex, per i quali si occupava di sviluppo immobiliare, cercava e gestiva i negozi. Anche nella joint venture con Zara le quote si diluirono, fino alla cessione nel 2010 del ramo d’azienda costituito dalla proprietà dell’immobile che ospita Zara in corso Vittorio Emanuele II. Del 2015 è la decisione di scendere nelle quote di Billionaire Italian Couture, società di vendita al dettaglio e all’ingrosso di abiti di lusso, che vede Flavio Briatore come altro socio storico. Le quote di entrambi, sommate, sono al 49%, dopo l’ingresso dello stilista tedesco Philipp Plein con il 51 per cento. Il portafoglio de L’Innominato spa ha visto l’uscita, nel 2014, di marchi come Levi’s, Tommy Hilfiger (più la chiusura di un Ferrari Store a Milano). Sono, certamente entrati brand come Victoria’s Secret (e Vergelio), ma il grosso degli investimenti si è concentrato su altri settori. A parte l’esperimento del negozio Lego (per ora solo nel centro commerciale di Arese), la parte del leone l’ha fatta la cosmetica: Kiko ha raggiunto la cifra di tutto rispetto di 800 punti vendita, con la sua formula fatta di un ottimo layout e di prodotti a basso prezzo. Altri marchi sono stati acquisiti o sviluppati nel comparto dei cosmetici: Madina, Womo, Bullfrog.
Gli altri grandi progetti sono nel solco della tradizione dei Percassi (che operano con diverse società divise in due rami: retail e immobiliare): sviluppo immobiliare di progetti commerciali. Fu così con l’Oriocenter di Orio al Serio, poi con una serie di outlet (Antegnate, Valdichiana, Franciacorta, Sicilia Outlet Village). I nuovi si chiamano Torino Outlet Village, Canyon Forest Village (in Arizona) e soprattutto il Westfield Milan, a Segrate (Milano). Realizzato in modo paritario da Percassi (attraverso Arcus Real Estate, controllata da Stilo Immobiliare) e dal grande sviluppatore australiano di centri commerciali, avrà 300 negozi (tra cui Galeries Lafayette), 50 tra bar e ristoranti e 16 cinema, sarà di 235mila metri quadrati. Ha avuto diversi stop, nonostante le società abbiano versato 8 milioni di euro di oneri di urbanizzazione al comune, e l’apertura potrebbe slittare al 2020. È sembrato a lungo tramontato uno dei grandi progetti, l’utilizzo di un’ampia area dell’ex villaggio operaio di Crespi D’Adda (oggi patrimonio Unesco) per mettere gli uffici del gruppo. La cronaca riporta di un passo indietro dei Percassi per i troppi oneri di urbanizzazione. Il confronto con la Regione Lombardia è tuttavia ripreso. Mentre ha avuto esito positivo, dopo un lungo iter, il progetto per il rilancio dello storico grand hotel di San Pellegrino Terme. Nel gennaio 2014 il restauro del vecchio Casinò, 11 mesi dopo delle terme. Nel 2018 sarà la volta di hotel a quattro stelle.