Chi sono i White Helmets, i volontari che sfidano le bombe per salvare i siriani

L’associazione umanitaria sfida le difficoltà della guerra per mettere in salvo i civili. Un impegno che non vuole essere politico, anche se non sono mancate le accuse

Abdulrahman Al-Hassan è Capo degli Agenti di Collegamento della Difesa Civile Siriana, un’organizzazione umanitaria che si occupa del salvataggio della popolazione siriana dal 2013. Conosciuta anche come White Helmets, caschi bianchi, l’organizzazione è spesso al centro di polemiche per presunti legami con gruppi estremisti e per la provenienza dei finanziamenti che riceve. Ma l’unica cosa che conta per l’organizzazione è salvare la popolazione siriana, che si trova spesso a dover vivere in zone assediate e dove non arrivano più cibo, medicine o benzina, soprattutto nella zona di Damasco e Homs. I White Helmets sono 2.890 volontari in totale, tutti siriani, presenti in 119 centri distribuiti in otto aree governative della Siria. «Molte delle persone che fanno parte dei White Helmets prima lavoravano per il governo. Il regime – spiega Abdul – li costringeva a non spegnere gli incendi nelle zone controllate dall’Esercito Libero Siriano, o a colpire i civili con gli idranti durante le proteste. Si sono ribellati e hanno iniziato a lavorare come White Helmets. Uno di loro, per esempio, ha preso il camion dei vigili del fuoco, lo ha portato nelle aree liberate e ha cominciato a spegnere gli incendi».

Siete addestrati?
Inizialmente non ricevevamo alcun addestramento, eravamo “armati” solo di pale. Non conoscevamo alcuna tecnica di salvataggio. Poi abbiamo ricevuto il primo addestramento USAR (Urban Search And Rescue) in Turchia. Chiaramente non era per tutti, solo per chi poteva valicare i confini. Dopo un corso leggero di otto mesi, abbiamo iniziato l’addestramento di medio livello, per poi passare al TOT (Training of Trainers) così da poter creare dei centri d’addestramento in Siria: ora ne abbiamo cinque, di cui tre al nord, uno al sud e uno nelle aree assediate di Damasco e siamo in grado di addestrare direttamente i nuovi volontari. Siamo addestrati per la Ricerca e Soccorso (SAR), per spegnere gli incendi e per le emergenze mediche.

E le donne ci sono?
Certo, sono 78 nella nostra organizzazione e dobbiamo coinvolgerne di più, ma questo dipende più dalla tradizione e dalla società. Noi le accogliamo. Molte di loro lavorano sulle ambulanze o si occupano delle emergenze, ma semplicemente perché si sentono più a loro agio in quei contesti piuttosto che occuparsi dell’USAR. Non c’è alcuna differenza tra uomini e donne nell’organizzazione.

È vero che un uomo non può salvare una donna?
Non completamente. È capitato una, forse due volte in tutto, che un uomo non volesse toccare una donna. Siamo riusciti a risolvere questo problema quando le donne si sono unite alla Difesa Civile Siriana. Credo però che dipendesse più dal fatto che eravamo agli inizi e non si capiva bene cosa fosse la nostra organizzazione. Ora la gente si fida di noi e tutti ci attendono per cercare e salvare le persone.

Quante ne avete salvate finora?
Più di 56.000 persone, ma è difficile avere dati certi. Nello scorso mese abbiamo risposto a circa 2.500 incidenti (parliamo di un solo mese). A volte un unico centro risponde a cinquanta incidenti al giorno.

Com’era la tua vita prima della rivoluzione?
Mi sono laureato in Ingegneria chimica nel 2010 all’Università di Aleppo e prima della rivoluzione ho lavorato in fabbrica e poi presso banche industriali e governative. In seguito alla rivoluzione ho fatto il volontario a livello locale fino a quando sono nati i White Helmets nel 2013. Eravamo solo 14 persone, un solo gruppo.

Che cosa spinge un volontario a rischiare la propria vita per salvare quella degli altri?
Le persone. Sono loro che danno la forza. Salvare la vita a qualcuno, una donna o i bambini soprattutto. Quando sentiamo un rumore dopo un attacco e seguendolo troviamo un bambino, portandolo in salvo, è meraviglioso. È una sensazione indescrivibile.

Qual è stata la situazione peggiore che hai dovuto affrontare?
Credo gli attacchi doppi. Andiamo a salvare le persone dopo un bombardamento e in quel momento subiamo un secondo attacco aereo. Questi attacchi doppi sono iniziati all’incirca verso la fine del settembre 2015, quando la Russia ha cominciato con gli attacchi aerei in Siria: tornano dopo 5-15 minuti dal primo attacco, nel momento in cui cerchiamo di salvare i civili. Hanno iniziato ad attaccare anche noi. In totale sono stati uccisi circa 130 White Helmets e di questi, 40 sono morti durante un attacco doppio.

A chi ti riferisci? Chi attacca i civili?
Gli attacchi avvengono con gli aerei o con i missili SSM (Surface to Surface Missiles, missili superficie-superficie, ndr). È chiaro che quando si utilizza questo tipo di armi, o è il regime di Assad o la Russia. Nessun altro potrebbe utilizzare gli aerei. A volte sono gli Stati che fanno parte della coalizione contro l’IS, come gli Stati Uniti, ma raramente. E attaccano i civili. Solo oggi (18 luglio, giorno dell’intervista, ndr) la città di Aleppo è stata bombardata con quattro missili SSM e con i barili-bomba. Due mesi fa hanno preso di mira il nostro centro e non sappiamo il perché. E bombardano anche le scuole, le ambulanze, gli ospedali.

A proposito, lo scorso 27 aprile è stato bombardato l’ospedale di Al-Quds, ad Aleppo, in cui è rimasto vittima anche uno degli
ultimi pediatri rimasti nella parte di Aleppo in mano ai ribelli. Perché gli ospedali vengono bombardati?

Non lo sappiamo con certezza. Credo sia una questione politica. Il regime utilizza sempre questo sistema per far scappare le persone e per far credere di essere esso stesso la soluzione: se non c’è un ospedale, le persone non si possono curare.

È vero che sono stati utilizzati anche barili-bomba e armi chimiche?
Ho visto molte volte i barili-bomba. La mia stessa casa è stata colpita questo tipo di bombe. Lo sanno tutti qui. Mentre le armi chimiche sono state usate a Ghouṭa e Idlib.

Quali sono le vostre aree d’intervento in Siria?
Siamo presenti in otto aree governative: Aleppo, Idlib, Hama, Latarkia, Damasco, la campagna attorno a Damasco, Homs e Dar’a.

Da un punto di vista economico, come vi sostenete?
All’inizio avevamo molte difficoltà economicamente, ma ora siamo supportati da vari governi attraverso le ONG che ci forniscono l’addestramento, l’attrezzatura, e veicoli.

Quali sono i governi che vi sostengono?
Gli Stati Uniti attraverso l’agenzia USAID, il governo britannico, i Paesi Bassi, la Germania, il Giappone.

C’è chi pensa che sosteniate Jabbat Al-Nusra. È vero?
No, non è così. Se lavorassimo per Al-Nusra (un gruppo estremista che si oppone al regime di Bashar Al-Assad e affiliato ad Al-Qaida fino al 28 luglio 2016, ndr) gli Usa e gli altri governi non ci sosterrebbero. Quando abbiamo cominciato a lavorare come White Helmets nel 2013 non c’era Al-Nusra in queste zone, neanche ad Aleppo. Le persone sanno chi siamo, cosa facciamo. Affermare che appoggiamo Al-Nusra è solamente propaganda. E a noi non interessa la questione politica.

Eppure ci sono video in cui i ribelli commettono delle esecuzioni, una persona viene uccisa e si vedono i White Helmets lì, pronti a caricare il corpo per portarlo via. Come si spiega?
Lavoriamo in zone di conflitto e ci si trova in aree controllate da gruppi armati. Se queste persone ci costringono ad andare lì e prendere un corpo noi lo facciamo. Come abbiamo fatto con i corpi dei combattenti del regime, con i gruppi armati, con gli iraniani che combattono con Assad, con la gente dell’Is. Noi salviamo tutti. Non vogliamo essere coinvolti in alcuna lotta. Salvare le persone è uno dei nostri compiti. Come lo è seppellire quei corpi.

Qui il video dell’esecuzione (Immagini forti)

Chiedete che siano stabilite delle Non-Flying Zone, ovvero le zone d’interdizione al volo così da poter avvertire chi sta per essere attaccato. Per alcuni, questo significherebbe avvisare i ribelli per farli mettere in salvo…
Noi continuiamo a chiedere che siano stabilite le zone d’interdizione al volo così da poter proteggere e salvare i civili, soprattutto le donne e i bambini. Saremmo molto più felici di non fare questo lavoro, salvare le persone. Perché questo ci crea sofferenza, fa male vedere le persone morire. Siamo un’organizzazione umanitaria, lontana dalle questioni militari e politiche. Spesso il regime cerca di associarsi a vicende politiche e non vogliamo che questo accada. L’unica cosa che vogliamo è salvare le persone.

Come sarà il futuro del popolo siriano?
Probabilmente ci vorrà tempo, ma sarà migliore. Ne sono sicuro.

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