Corrado Rustici: «La musica? Sopraffatta dalle baracconate»

Parla il genio non troppo segreto del pop italiano e internazionale, da Zucchero a Ligabue ad Aretha Franklin, un expat di successo che da Napoli è finito a Los Angeles. L’Italia, “musicalmente è terzo mondo”. L’Italiano “è una lingua limitante”. Ed ecco il suo novo disco, fatto solo di chitarra

Chitarrista, autore, produttore dal tocco magico e milionario. Qualcuno l’ha definito “il milite ignoto” della discografia, ma se dobbiamo dirla tutta Corrado Rustici è un controllatissimo avventuriero delle dodici note e delle sei corde. Uno sperimentatore lucido e consapevole. E di successo (anche se lui al successo sembra fare poco caso). Rustici è cresciuto nella musicalmente sempre feconda Napoli, si è fatto le ossa come chitarrista con il progressive allora trionfante (si era negli anni 70) e come niente si è trasferito a Londra. Mesi di fame («mangiavo le lumache dei giardini pubblici» ricorderà poi). L’incontro quasi casuale con mostri sacri del jazz rock come John McLaughlin, e Allan Holdsworth. Una serie di dischi jazz rock progressive pubblicati in Inghilterra.

E poi un altro trasferimento, questa volta negli Usa. Sulla difficilissima piazza americana Rustici entra nell’a-team di turnisti che produce il grande pop anni 80: parliamo di nomi come Narada Michael Walden alla batteria, Randy Jackson al basso e altri i cui nomi si possono trovare, con quello di Rustici, in centinaia di dischi: da Aretha Franklin a George Michael, da Whitney Houston a Herbie Hancock e tantissimi altri. E infine il ritorno in Italia, con Zucchero, che alla fine degli anni 80, dopo già una vita da autore e cantante pop, si reinventa in una originale veste spaghetti R &B. Con l’album Rispetto, e poi con Oro, incenso e birra. Il regista di questi lavori è, nemmeno a dirlo, Rustici, in veste di produttore e di chitarrista virtuoso. Rustici subito dopo diventa l’artefice del successo di Elisa, e poi ancora di quello dei Negramaro. Il mainstream pop italiano comincia a rivolgersi sempre di più a lui, fino a Ferro e Cartone di Francesco Renga, Secondo tempo e Arrivederci mostro di Ligabue e tanti altri successi della discografia di questi anni.

Rustici è cresciuto nella musicalmente sempre feconda Napoli, si è fatto le ossa come chitarrista con il progressive allora trionfante (si era negli anni 70) e come niente si è trasferito a Londra. Mesi di fame («mangiavo le lumache dei giardini pubblici» ricorderà poi). L’incontro quasi casuale con mostri sacri del jazz rock come John McLaughlin, e Allan Holdsworth. Una serie di dischi jazz rock progressive pubblicati in Inghilterra

«Da quattro anni a questa parte mi sono tirato fuori dalla mischia, perché non voglio contribuire al quadro musicale dell’intrattenimento. Ho dato. Sono fiero e grato delle cose che ho fatto. E non ho più bisogno di quello per campare. Ormai lavoro nel pop solo per affetto e per gusto» racconta Rustici a Linkiesta.it.

In parallelo al lavoro di produttore, Rustici porta avanti da anni quello solista. Dischi rari (il primo, The Heartist, è del 1995, il secondo Deconstruction of a Post Modern Musician è del 2006, poi un live giapponese) distillati piano piano, fuori dalle pressioni del mercato, seguendo le sole leggi della creatività, della sperimentazione, e dell’aver qualcosa da dire. E con quest’ultimo, Aham, uscito da qualche settimana, Rustici lavora solo di chitarra. Tutti i suoni nel disco provengono (a parte la voce) da chitarre. Acustiche, elettriche, filtrate, processate, looppate, campionate.

I suoi dischi solisti non sono una cosa frequente. Sono rari, e partono da un progetto preciso.

Sono libero dalla gabbia d’oro del pop. Faccio dischi quando sento di farli. Non ho pressioni di mercato. Stavolta sono partito dall’idea che la chitarra, elettrica e acustica è uno strumento ormai fossilizzato.

E allora, «che fare?» direbbe quello

Be’ è sempre lo strumento con il quale mi esprimo meglio, e allora ho cominciato a cercare un modo di portarla fuori dai territori consueti. Ho fatto un disco solo di chitarra. Tutto: percussioni, basso, tappeti. E’ tutto fatto con la chitarra, tranne la voce naturalmente.

Anche le batterie?

Quelle sono abbastanza facili. La chitarra è uno strumento percussivo: non è così difficile farle tirare fuori dei suoni che assomigliano a tamburi. La cosa più difficile è imitare i piatti della batteria. Ma alla fine, lavorando sui software di elaborazione del suono, ci sono riuscito. Ci ho messo sei mesi solo per iniziare a capire come fare. Poi ci sono voluti anni di lavoro per finire il disco.

«Sono libero dalla gabbia d’oro del pop. Faccio dischi quando sento di farli. Non ho pressioni di mercato. Stavolta sono partito dall’idea che la chitarra, elettrica e acustica è uno strumento ormai fossilizzato»

Ha sempre usato la tecnologia in modo disinibito…

E da un po’ sto lavorando un po’ su un software che spero e credo cambierà parecchie cose. Un nuovo modo di concepire come la musica viene creata. Sia produzione che distribuzione. Creerà un’altra dimensione per il prodotto musicale. Per prima sarà commercializzata una linea di effetti per chitarra, poi verrà il resto ma non voglio dire troppo.

Proviamo a dirlo noi: una piattaforma di streaming, tipo Spotify?

Spotify è uno dei primi esempi di quello che sarà la condivisione della musica nel futuro. Il prodotto che sto facendo è una specie di streaming, ma che dà la possibilità di manipolare i files. Il file, come concetto è obsoleto: non puoi avere congegni smart con canzoni stupide. Il file deve adattarsi ai tuoi bisogni emotivi.

Tornando alla chitarra: non ci sono più grandi innovatori dello strumento, solo, forse grandi stilisti e grandi “tecnici”?

Volevo rompere questa trance, che dura dagli anni ’60 in poi. Dopo l’ondata di geni, da Hendrix a Beck, a Clapton a Page a McLaughlin, lo strumento si è praticamente fermato. Ci sono grandi strumentisti bravissimi, che però per me sono irrilevanti. Sono appunto strumentisti, non musicisti.

Come l’ha accolta il mondo musicale anglosassone, quando c’è arrivato?

Già in Inghilterra c’era un razzismo notevole nei nostri confronti, parlo dei primi anni ’70. Musicalmente non eravamo credibili, e non lo siamo ancora: per inglesi l’Italia era, ed è ancora adesso, il terzo mondo musicale.

E negli Usa?

Ci sono arrivato quando per fortuna avevo un disco in classifica, che ha dato un certo tipo di credibilità. Poi ho cominciato a suonare con Narada Michael Walden. Abbiamo messo su una band che è stata molto fortunata. Con ottimi musicisti, da David Sancious a Randy Jackson. Abbiamo registrato e accompagnato grandissimi musicisti. Avevo imparato delle cose per sentito dire, ma non avevo mai suonato musica nera, venivo dal jazz rock europeo.

Anche se vivendo a Napoli è stato esposto alla musica delle basi Nato…

Avevo 14 anni, e con Pino Daniele si facevano jam tutti i giorni, in sala prove e nei locali di strip tease. Ma alla fine negli Usa mi sono inventato delle ritmiche chitarristiche, che poi è stato ripreso da alcuni chitarristi neri. Solo chitarra ritmica. Se non sai suonare il ritmo non sai suonare niente.

Un musicista-expat cosa dovrebbe fare?

Dipende molto dalla personalità di ciascuno. Io ero molto ottusamente arrogante. A 16 anni sentivo una strana energia: non era voglia di essere famoso, ma c’era dentro di me una forza che poi ho imparato a riconoscere e seguire ciecamente, ma che mi portava a fare cose strane, insolite, che agli altri sembravano pazzesche. Provavo a fare cose a cui nessuno credeva.

Risultato?

Sono stato fortunato, perché evidentemente un certo tipo di risultato era nel mio destino. Non mi sto vantando di nulla: non faccio mai nulla in vista dei risultati. Sono troppe, e troppo imprevedibili, le cause che creano un successo o un insuccesso. A volta va bene a volte no. Riflettendo mi sono accorto che non ho controllo su queste cose. In certi casi c’è stata molta fortuna. Ma non sono così stupido da aspettarmi i risultati. Quando faccio una cosa la faccio perché la devo fare. E basta. Per rispondere alla sua domanda si musicisti expat: bisogna provare di tutto, prendere mattonate in una jam session, andare a scuola di musica, perché pochi sanno davvero cosa sia la musica. C’è chi fa delle foto da lontano della musica, e le appiccica sulla nostra consapevolezza sociale, culturale, eccetera. Altri attingono a un fiumicello più profondo. E quella è la vera musica.

«Io ero molto ottusamente arrogante. A 16 anni sentivo una strana energia: non era voglia di essere famoso, ma c’era dentro di me una forza che poi ho imparato a riconoscere e seguire ciecamente, ma che mi portava a fare cose strane, insolite, che agli altri sembravano pazzesche. Provavo a fare cose a cui nessuno credeva»

Chi sono quelli che attingono davvero alla musica?

Tutti i grandi “spartiacque”. Dai Beatles ai grandi maestri, Miles, Parker, Chick Corea, che fu molto criticato, Hendrix, eccetera.

George Martin coi Beatles ha cambiato la figura del produttore. Il produttore ormai è come il regista di un film. A volte più importante dei musicisti.

A volte anche troppo. Specie nel pop attuale. Comunque il produttore è una figura ibrida: deve conoscere sia la tecnologia che il linguaggio musicale.

Ha prodotto da Zucchero a Elisa. Come produttore qual è il suo approccio con gli artisti?

Di solito le persone che mi contattano si dividono in due categorie. L’artista emergente, come Elisa o Negramaro, o all’epoca Zucchero. Poi ci sono personaggi che hanno già una storia e mi contattano per rinfrescare l’immagine musicale. È difficile in tutti e due casi. Devi o inventare una storia, una credibilità. Con Elisa passammo sei mesi insieme a scrivere canzoni. Mi aiutò la Caselli che diede la possibilità di credere in un prodotto cantato in inglese.

Non trova che il suono del pop attuale sia molto standardizzato, da Rihanna a Cathy Perry, a Beyoncé ecc ecc. E che gli autori siano sempre gli stessi?

Sì, trovo che sia così. Dal postmderno in poi nel pop è tutto un po’ appiattito. L’arte è sempre intrattenimento, ma l’intrattenimento è molto difficilmente arte. Poi a me piace anche il pop. Non si può mangiare sempre all’Osteria francescana di Massimo Bottura, si può anche andare a mangiare una pizza. Ma come dice Joni Mitchell: a un certo punto devi decidere se vuoi essere una pizza o se vuoi essere una artista.

Un piccolo paradosso. Oggi viviamo musicalmente nel passato, nel già detto, molto più di quanto succedesse 30 anni fa, cioè nel passato?

Sì, perché non viviamo musicalmente nell’ora.

Anche queste grosse manifestazioni. Mesi fa guardavo l’Eurofestival

Mi spiace per lei

Be’ possibile che l’unica espressione culturale della musica europea, con tutto quel che abbiamo, sia una baracconata di riporto come quella?

Si vede che è così. Il baraccone principale, comunque è youtube. I buoni musicisti sono sopraffatti dalle baracconate. Ma il problema è l’epoca. Verrà un’epoca (magari il “transmoderno”) in cui riprenderà la ricerca. Dopo la morte di questo periodo tornerà qualcuno che avrà qualcosa da dire con le nuove tecnologie.

Qual è il problema del pop italiano? Forse che ha perso le radici?

Già prima di Pino Daniele mio fratello con gli Osanna mischiava il testi in napoletano con la musica internazionale. C’è da dire che il napoletano si presta meglio. L’italiano in sé come lingua è molto limitante: devi sempre finire con la vocale, diventa il belcanto. Poi ci si mette una chitarrina lì per farlo diventare rock, ma il risultato è sempre un ibrido. I testi delle canzoni italiane alla fine sono sonetti che si cercano di imbellettare. C’è troppa enfasi sul testo, ma nessuno capisce che il testo da solo non basta. Nella musica c’è sempre bisogno di qualche elemento che tocchi la persona a livelli, diciamo, primitivi. E questo elemento spesso non è il testo.

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