Da ascoltareGli Swing Brothers salveranno la musica italiana dagli zombie

Sergio Caputo e Francesco Baccini propongono testi ironici da cui trasuda anche una profonda cultura musicale. Peccato che non li si veda mai in tv e che le radio passino poco le loro canzoni

Ormai una vita fa Oliver Stone, regista americano recentemente più noto per le sue dichiarazioni politiche che per i suoi film, ha portato al cinema The Doors, lasciando a un camaleontico, in questi casi si dice così, Val Kilmler il compito di interpretare Jim Morrison. Film accurato e d’autore, ma decisamente prescindibile se si conosce un minimo la storia della band in questione. Una scena di quel film mi è sempre rimasta in mente (due, se ci mettiamo la visita in studio di registrazione di Nico a Jim): quella in cui il cantante sale sopra una macchina, in un parcheggio pieno di ragazzi e grida “C’è qualcuno che sa di essere vivo, qui?”. Mi è talmente rimasta in mente che non sono neanche sicuro ci sia, questa scena, nel film. Ma ci poteva stare. Quella domanda, quando si è giovani, e quando il film è uscito ero giovane, anche quando ho incontrato artisticamente Jim Morrison e i Doors ero giovane, è di quelle che ci si pone ogni istante, specie guardandosi intorno, guardando al mondo degli adulti, degli omologati, degli integrati di echiana memoria (anche Apocalittici e integrati è tipica lettura che si fa in giovane età, direi).

Questa lunga premessa per dire cosa? Che oggi, a quarantasette anni compiuti, guardandomi intorno e guardando in quella porzione di mondo che ho deciso di frequentare per lavoro, la domanda del Jim Morrison di Oliver Stone o della mia fantasia sembra anche troppo attuale. In maniera quasi imbarazzante e inquietante. Cioè, uno lascia il mondo delle lettere perché lo considera animato da zombie e si trova a muoversi in un mondo di zombie glitterati, quello della musica e della canzone italiana.

E un po’ come nei telefilm (lo so, si dice serie tv, ma sono un quarantasettenne sopravvissuto, abbiate pietà) di zombie, mentre ci si aggira sparando in testa agli zombie, e direi che l’immagine ben si addice al mio mestiere attuale, capita di incontrare qualche altro essere umano, come noi intenzionato a rimanere vivo, possibilmente di mettere su una comunità insieme a qualche altro umano. È quello che devono aver pensato due giganti (sì, giganti) della nostra canzone, quando hanno deciso, è il caso di dirlo, di unire le forze e andare in giro a portare la loro bella musica, piantando metaforicamente proiettili in fronte ai tanti zombie che li e ci circondano.

Parlo, so che la premessa è stata lunga e delirante, ma visti i soggetti in questione non potevo certo rimanere sul piano meramente cronachistico, di Sergio Caputo e Francesco Baccini, rinominatisi gli Swing Brothers. Chiaro il riferimento ai Blues Brothers, e vista l’ironia che ha sempre contraddistinto i loro testi (non tutti, ma molti) e vista anche la cultura musicale che trasuda dalle loro composizioni, il giocare coi generi, il rispettoso approccio verso i canoni, direi che mai nome fu più azzeccato. I nostri, Caputo e Baccini, hanno, con una lieve sfasutura temporale, contribuito con le loro canzoni a scrivere pagine importanti della nostra canzone d’autore. Mi rifiuto, perché vi stimo, di citarvi alcuni dei loro classici, ma il fatto che quei classici, abbiamo fatto scuola e siano, anche oggi, attuali e contemporanei, è lì, sotto le orecchie di tutti.

Quando Caputo e Baccini capiteranno a Milano, è una promessa, sarò in prima fila a ascoltarli. Di più salirò sul palco, una maglietta di Pavoletti addosso, brandendo un machete, per difenderli dagli zombie, gridando, “C’è qualcuno che sa di essere vivo, qui”. Parola di lupetto

In realtà i due, di questo si parlava all’inizio di questo strano articolo, sono ancora ben più che vivi, quindi usare il passato è errore grossolano. Ci sono e lottano insieme a noi, solo che capita di rado di vederli in tv, praticamente mai, e di ascoltarli in radio, come Caputo ha avuto modo di raccontare pochi mesi fa anche i classici si ascoltano ormai raramente, quindi si potrebbe avere la sensazione che di storia passata e chiusa si tratta. Questo sì che potrebbe risultare errore fatale, di quelli che, tornando alla scena del telefilm sugli zombie, ci infila in un cul de sac, circondati da mostri pronti a mangiarci il cervello. Essere fuori da certi giri, in cui si finisce per motivi che con l’arte hanno poco o nulla a che fare, è una condizione che semmai certifica il loro essere liberi battitori, uomini fuori dagli schemi in un mondo di omologati.

Sentirli insieme è una gioia, non perdeteveli se capitano dalle vostre parti, e c’è da augurarsi che, dopo un primo singolo in cui hanno in qualche modo rodato la macchina, Non fidarti di me, arrivi presto altra musica inedita. Baccini, proprio recentemente sui social, ha detto che non intende più incidere album, perché ritiene il tutto sport inutile in un mondo così veloce e di musica usa e getta, ma noi, che lottiamo insieme a loro, speriamo si sia trattato di un legittimo sfogo. Autori e interpreti come Sergio Caputo e Francesco Baccini, capaci di giocare con la grammatica musicale, spesso flirtando con generi che oltreoceano hanno avuto i loro apici, e capaci di creare, ognuno a suo modo, un immaginario letterario ben riconoscibile e preciso, andrebbero tutelati e coccolati. Radio come Radio Italia, sì, questo è un appello, dovrebbe passarli non dico tutte le ore, ma sicuramente tutti i giorni. I giovani, sia gli ascoltatori che i giovani che approcciano la musica sperando di farne un mestiere, dovrebbero citarli a memoria, come invece capita a noi, che ormai spariamo agli zombie senza neanche fare più caso agli schizzi di sangue e materia cerebrale che ci arrivano addosso.

Quando Caputo e Baccini capiteranno a Milano, è una promessa, sarò in prima fila a ascoltarli. Di più salirò sul palco, una maglietta di Pavoletti addosso, brandendo un machete, per difenderli dagli zombie, gridando, “C’è qualcuno che sa di essere vivo, qui”. Parola di lupetto.

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