Google ci aveva provato, ma ha dovuto cambiare idea. In un impulso filo-ucraino aveva deciso di rinominare le città della Crimea (che sono, ormai, città della Russia) secondo la legge di de-comunistizzazione decisa dall’Ucraina. Una decisione piuttosto discutible. E dal Cremlino si sono affrettati a discuterla.
“Google sta assecondando Kiev e i sentimenti russofobi che fomentano gli Ucraini”, dice Sergei Aksyonov, il primo ministro della Crimea. Oppure, con un’analisi più semplice meno paranoica, il motore di ricerca americano sarebbe affetto da “cretinismo topografico”. Non un complimento.
Del resto, “se Google, in modo così superficiale, ignora la legislazione russa sui nomi dei centri abitati, sarà molto difficile per loro fare business nel nostro territorio”, ha detto Nikolai Nikiforov, ministro russo per la Comunicazione. È una minaccia? È una constatazione? Forse entrambe le cose. Però il punto è stato centrato: Google, in quanto azienda privata, può fare più o meno come gli pare. Anche per quanto riguarda le mappature. Mettersi contro Putin, tuttavia, appare poco saggio, oltre che piuttosto incoerente – almeno nel tratamento dei dati relativi alla topografia.
E così, dopo le pressioni del Cremlino, anche da Mountain View è partita la marcia indietro: i nomi sovietici sono stati ristabiliti, e la pace è ritornata. In nome del business. Ora contro Mosca è rimasta solo Hillary Clinton, che per occultare lo scandalo (uno dei tanti) delle mail, ha puntato il dito contro l’intelligence russa. Una manovra emotiva, certo. Ma che solleva un dubbio: possono gli americani affidarsi a una che riesce, in poche ore di nomination, a farsi soffiare le mail da una potenza (nemmeno più tanto grande) straniera e, per certi versi, nemica?