Una cosa i giapponesi l’hanno imparata: se l’imperatore parla alla radio, vuol dire che non tira un’aria buona. La prima volta fu con Hirohito il 15 agosto 1945, un evento assoluto (mai l’imperatore si era rivolto ai suoi sudditi), e non lo fece per dire cose belle: il Giappone aveva perso la guerra, gli Usa avevano vinto, cominciavano tempi duri.
Per loro fu uno shock: era la prima volta nella storia che perdevano una guerra (o, almeno, così erano convinti). Sulle prime, in molti non ci credettero. Erano aiutati dal fatto che, per molti, la lingua del discorso era del tutto incomprensibile. In Giappone i registri linguistici sono una traduzione esatta delle gerarchie sociali: cambiano le espressioni e le parole a seconda dell’interlocutore (o meglio: a seconda della posizione sociale dell’interlocutore). L’imperatore, non avendo nessuno sopra di sé e nessuno al suo livello, parlava una variante di giapponese per necessità rivolta verso il basso, ma comunque ricca di arcaismi, impronte letterarie, espressioni rare e ricercate. Molti, insomma, non capirono. E, nel dubbio, decisero che fosse più conveniente continuare a combattere. Sono gli “ultimi giapponesi”, di cui il massimo esponente fu Hiroo Onoda che si arrese nel 1974 (trent’anni dopo la fine del conflitto) e poi investì le sue tecniche di sopravvivenza in un corso aperto a tutti.
La seconda volta avvenne in epoche più recenti, e anche in questo caso non per eventi piacevoli. Il 16 marzo 2011 l’imperatore Akihito, che nel 1989 era salito al trono, fece un’apparizione televisiva per rassicurare il popolo giapponese, da pochi giorni colpito dal terremoto e dallo tsunami, con conseguente sversamento di materiale radioattivo della centrale di Fukushima (nella quale, tra le altre cose, è ancora impossibile accedere). Stavolta, anche consapevole dei possibili equivoci che un linguaggio troppo ricercato può provocare, sceglie di esprimersi in un giapponese comprensibile: elegante, certo. Ma comprensibile a tutti. Il momento era grave, ancora una volta il Giappone aveva bisogno di una guida.
E, infine, una terza volta, meno grave ma comunque sconvolgente: dopo Ratzinger, anche l’imperatore del Giappone non ce la fa più e vuole abdicare. La motivazione è la stessa del Papa emerito: è stanco, è vecchio e non sta bene. In queste condizioni non ha la lucidità necessaria per interessarsi al bene del Paese. Non può dire che vuole rinunciare al suo incarico – significherebbe modificare la legge, e l’imperatore, per legge, non può interessarsi alla politica e alla legge del Giappone (chiaro, no?) ma ha comunque ricordato che, anche in passato, quando gli imperatori precedenti erano malati, la società intera era costretta a risentirne. “Mi capita di chiedermi se, in qualche modo, sia possibile evitare questa situazione”.
Insomma, ogni volta che un imperatore parla, c’è qualche certezza che cade: l’invincibilità in guerra; la sicurezza nucleare; le regole di successione. Il Giappone (anche il Giappone!) cambia, ogni tanto. Ma è così raro che, ogni volta che accade, c’è il bisogno di annunciarlo in televisione.