Il polverone della settimana, in questa estate che violenta la pacifica ma distratta e ingenua benevolenza occidentale per la vita, l’ha scatenato Marina Abramovich, artista serba naturalizzata statunitense. «Ho abortito tre volte. Un figlio sarebbe stato un disastro per la mia carriera», ha dichiarato in un’intervista apparsa qualche giorno fa su Tagesspiegel e che non smette di far discutere, ripresa da testate, blog, siti, su cui si sono riversati insultanti indignazioni e catartiche benedizioni di migliaia di lettori.
I figli non sottraggono talento, ma assorbono le energie della dedizione necessaria a scolpirlo: per questa ragione, secondo Abramovich, le donne non hanno successo in campo artistico.
“La dichiarazione è destinata ad aprire un dibattito sul gender gap nell’arte”, ha sentenziato l’Huffington Post, incasellando la questione in uno spazio trito ma ingolosente: la disparità tra uomini e donne, miccia del reale scontro di civiltà in atto in Occidente e performance della sua soumission.
Solo due anni fa, Tracey Emin (candidata al Turner Prize nel 1999 per My Bed, opera che constava di un letto sfatto e un imprecisato numero di mutande, sigarette, preservativi e assorbenti appoggiatici sopra), disse che «i bravi artisti che hanno figli ci sono e si chiamano uomini». L’anno dopo, aggiunse che aveva scelto di non fare bambini per non arenarsi e per passare indenne i quarant’anni, cioè la fase attraversata la quale, a suo dire, la creatività artistica s’estingue con incredibile facilità (nella stessa intervista, specificò anche di lavorare solo nei fine settimana e nei giorni di vacanza). Virginia Woolf scrisse, in Una stanza tutta per sé che le donne sarebbero state grandi artiste solo quando avessero potuto disporre di spazi propri, isolati, appartati, in cui sciogliersi dai ruoli imposti e dedicarsi ai solo che avessero scelto autonomamente.
Preparare un semolino o un sugo al pomodoro per un figlio, mentre lo facevo, mi avevano terrorizzata, convincendomi che non avrei più scritto: poco più tardi, capii che era servito al mio mestiere
Era il 1929: si anelava a una parità che non fosse un derivato spicciolo della libertà, né una gamma di strumenti che la burocratizzassero. Non esistevano sussidi, congedi parentali, contraccezione. Non esisteva il gender gap: per questo il ragionamento della Woolf era, paradossalmente, più politico che estetico. Quello di Abramovich, invece, sebbene strizzi l’occhio a un tema caldo (riscaldato) che l’Huff Post e tutte le testate che hanno ripreso la notizia non hanno omesso di calcare, al contrario, vuole essere un manifesto estetico. Il gender gap non c’entra niente: c’entra l’idea che l’arte sia una silent disco (sapete, una di quelle aberranti piste dove decine di individui ballano ascoltando ciascuno la propria musica in cuffia), autismo consapevole, ritiro, ascesi. Tutte pratiche che un figlio renderebbe impraticabili, non solo perché i bambini sono casinisti, marpioni, maleducati, refrattari al sacro, predatori, onnivori (infilano in bocca qualunque cosa, persino i pennelli), ma pure perché una donna che metta al mondo un essere umano è fregata per sempre. Annullata. Impensierita ad interim. Distratta. Un marsupiale. “Sarò sempre una donna canguro”, scriveva con angoscia Natalia Ginzburg, sulla rivista Mercurio, nel 1948, ammettendo che il pensiero dei suoi figli non l’abbandonava mai. Quel pensiero, tuttavia, era un privilegiato contatto con la vita, con il suo senso, il suo afflato e la sostanza di cui l’arte dovrebbe plasmare la forma: ventiquattro anni dopo, in un’intervista rilasciata ad Adele Cambria, su Aut, ancora Natalia Ginzburg diceva, contestando la Woolf, che “non potrei scrivere nell’isolamento, cadrei nel panico e non farei più nulla. Quando la mia casa era piena di gente cara, mi svegliavo presto e scrivevo in modo da potermi poi occupare di tutti. Preparare un semolino o un sugo al pomodoro per un figlio, mentre lo facevo, mi avevano terrorizzata, convincendomi che non avrei più scritto: poco più tardi, capii che era servito al mio mestiere“.
Alle mamme artiste (la storia del mondo ne conta un numero sterminato: Marlene Dietrich, Madonna, Angelina Jolie, Marietta Robusti – che il suo bambino lo perse quando aveva solo 11 mesi e non seppe mai riprendersi e diventò un’immensa pittrice travestendosi da uomo pur essendo la figlia di Tintoretto -, Peggy Guggenheim, Marta Marzotto, persino quella stronza di Joan Crawford) è riservato un potente antidoto all’autoindulgenza, quella cosa che fa inseguire vibrazioni senza sapere cosa siano
Il frastuono della vita che le donne hanno intorno, da madri, le preserva dal pericolo di perdere la sostanza e astrarsi nella forma. Marina Abramovich, in una delle sue performance più famose, ha stretto le mani, al Moma (dove secondo Woody Allen, se qualcuno un giorno si mettesse a vomitare, di certo troverebbe qualcun altro disposto a definirlo artista), a centinaia di sconosciuti, per ore, guardandoli negli occhi e scatenando la commozione di buona parte delle terre emerse, cui è sfuggito che quella tenerezza, così gratuita e plateale, era del tutto priva di contenuto, del tutto incapace di decentrarsi e darsi e infondersi davvero da lei, sacrale e immobile come una Madonna, ma incapace di capire che la Madonna accoglie senza selezione all’ingresso.
La selvaggia furia di un bambino e la disperante interruzione che occuparsene rappresenta dalla trance, dal perfezionismo, dall’ottusa convinzione che i propri monologhi siano dialoghi: alle mamme artiste (la storia del mondo ne conta un numero sterminato: Marlene Dietrich, Madonna, Angelina Jolie, Marietta Robusti – che il suo bambino lo perse quando aveva solo 11 mesi e non seppe mai riprendersi e diventò un’immensa pittrice travestendosi da uomo pur essendo la figlia di Tintoretto -, Peggy Guggenheim, Marta Marzotto, persino quella stronza di Joan Crawford) è riservato un potente antidoto all’autoindulgenza, quella cosa che fa inseguire vibrazioni senza sapere cosa siano; sbriciolare biscotti su una pedana; ricoprire un letto di assorbenti. Insomma a quel vomitare al Moma che, ahinoi, ci sarà sempre qualcuno disposto a chiamare arte. Qualcuno, presumibilmente, non madre, ché le mamme di rigurgiti ne puliscono abbastanza da saperli riconoscere per quello che sono.