Ma perché Matteo Salvini si agita, fa il matto, cerca il titolo a effetto raschiando il fondo della provocazione – la Boldrini-bambola gonfiabile, la promessa di dare “mano libera” ai poliziotti nelle città, manco fossimo nella Grecia dei Colonnelli, gli insulti a Stefano Parisi – in questa infinita campagna elettorale a urne chiuse già da un pezzo?
Perché questo iper-attivismo accaldato che alterna le tenerezze in spiaggia con la Isoardi sui settimanali di gossip alle sparate populiste contro l’universo mondo su tutto il resto della stampa?
Perché, insomma, l’altro Matteo non si riposa un pochino come tutti, non si gode le Olimpiadi davanti alla tv, non chiude il teatro nemmeno la settimana di Ferragosto?
Povero Salvini. Non può permetterselo. A tre anni dalla sua elezione a leader della Lega, da qui a fine anno si giocherà tutto: o stroncherà i mugugni interni o gli toccherà gestire una tornata congressuale ad alto rischio. In base allo statuto del Carroccio, infatti, entro dicembre il partito dovrebbe convocare le assise nazionali per rieleggere Segretario e Consiglio federale. Un potenziale guaio per il giovane leader e il suo progetto di partito a vocazione nazionale, sepolto prima dalle Regionali e poi dalle Amministrative, in un susseguirsi di delusioni inversamente proporzionale all’onnipresenza di Matteo in tv.
Sul fronte interno del partito Salvini non è in un bel momento: da qui a fine anno si giocherà tutto: o stroncherà i mugugni o gli toccherà gestire una tornata congressuale ad alto rischio
In questo rush d’agosto Salvini deve far dimenticare gli insuccessi, presentarsi alla ripresa d’autunno con un punto in più di Forza Italia, consolidare attraverso i sondaggi la sua posizione di forza mediatica per contrattare con Maroni, Calderoli e Zaia un rinnovo della tregua che gli ha consentito di monopolizzare l’immagine e la guida della Lega.
E l’unica strada percorribile sembra quella di barcamenarsi tra le suggestioni del partito lepenista italiano e le memorabilia del vecchio Carroccio barbaro e nordista cercando di tenere insieme tutto: la battaglia anti-Merkel e l’amicizia con Berlusconi che con la Merkel è alleato in Europa; il feeling con i Forconi e il possibile dialogo con i moderati; la rottamazione del bossismo e l’intesa con gli amici di Bossi; le lodi a Putin e gli elogi a Trump; la scalata al centrodestra e un patto elettorale con gli stessi leader che vorrebbe esautorare e sostituire.
Un esercizio da prestigiatore spericolato, dove l’estate matta delle bambole gonfiabili e delle magliette da poliziotto ha il ruolo di sublimare nell’adrenalina il compromesso che si sta immaginando. Perché “Il Ruspa” resti “Il Ruspa” anche se, probabilmente, tempi più miti e ragionanti lo attendono.Salvini sa che il voto di protesta che insegue da due anni è volato verso il M5S senza possibilità di ritorno. Sa che il voto cosiddetto moderato non si avvicinerà mai a lui. Per lui l’assalto al cielo è storia chiusa, e giocoforza si torna alla casa del padre, alla vecchia Lega formato Bossi, di lotta quando non si può far altro, di governo quando ci si riesce
Salvini non è stupido. Sa che il voto di protesta che insegue da due anni è volato verso il M5S senza possibilità di ritorno. Sa che il voto cosiddetto moderato non si avvicinerà mai a lui, ma resta in attesa di un colpo di teatro di Berlusconi. Ha capito che l’area del lepenismo italiano è molto più piccola di quel che si immaginava. Insomma, è consapevole che la scommessa su questi tre bacini elettorali è stata persa, e sarà presto necessario lavorare a un passo indietro perché le politiche anticipate incombono e da solo non andrà da nessuna parte.
Per questo balla sul filo dell’esagerazione, lancia in aria i birilli, tira fuori un coniglio al giorno dal cilindro. Per questo, soprattutto, usa la tattica della doccia scozzese con il centrodestra: una settimana fa era a cena da Berlusconi, ieri a Ponte di Legno irrideva il suo nuovo pupillo, Stefano Parisi, con un «Parisi chi?» pieno di disprezzo. È il suo modo di dire al mondo che lo ama: qualunque cosa accada, resto io. Non cambio. Sono il Capitano, sempre. Anche se domani, magari, dovrò tornare ad Arcore trattenendo i bollenti spiriti. Anche se dopodomani mi vedrete sui palchi del fronte del No referendario insieme a quelli che oggi prendo in giro. Anche se, insomma, l’assalto al cielo è storia chiusa, e giocoforza si torna alla casa del padre, alla vecchia Lega formato Bossi, di lotta quando non si può far altro, di governo quando ci si riesce.