“Se ti muovi come una persona di potere, cominci a pensare come una persona di potere”. Questo è il nocciolo del pensiero della psicologa sociale Amy Cuddy, inventrice del “power pose”, cioè della convinzione che, per ottenere rispetto, ascolto e, in ultima analisi, autorevolezza, sia necessario lavorare sul linguaggio del corpo. Per la precisione, bisogna abituarsi ad assumere delle “pose di potere” – gambe salde e aperte, spalle larghe e rilassate, braccia lungo i fianchi, testa alta – e, come per magia, si otterrà l’effetto voluto. Aumenta il testosterone dentro di noi, sale il rispetto e la stima fuori da noi.
Una tesi affascinante, quella di Amy Cuddy. Interessante e soprattutto fondata dal punto di vista scientifico. Almeno, così lei sostiene nel suo Ted Talk che, per la cronaca, è il secondo più popolare di sempre (il primo è un dibattito sulla scuola che forse uccide la creatività) e ha superato i 34 milioni di visualizzazioni. Nella realtà, però, le cose sono un po’ diverse.
Il cosiddetto fondamento scientifico è costituito soltanto da un piccolo studio condotto dalla stessa Amy Cuddy, per conto di Harvard, e da Dana Carney insieme a Andy Yap, per conto della Columbia University. Secondo la ricerca, che comprendeva un campione di 42 persone, le persone che assumevano pose “di potere” per due minuti registravano dei reali cambiamenti chimici nel loro sangue e, di fatto, cominciavano a sentirsi davvero più potenti. Una scoperta che ha dato origine a un libro e a una serie di conferenze.
Come si sa, però, almeno dai tempi di Galileo a questa parte, una cosa per essere definita scientifica deve essere riproducibile, poste le medesime condizioni, ogni volta. Ecco, nel caso del “power pose” non è così. Come spiega Tim Harford sul Financial Times, uno studio successivo di due anni, condotto su un campione più ampio (200 persone anziché 42) sembra smentire – anzi, smentisce – le conclusioni di Amy Cuddy. Sono state fatte assumere “pose di potere” per due minuti e sono stati analizzati campioni di saliva per controllare i livelli di testosterone. Risultato: erano inalterati.
Chi ha ragione, allora? Il primo studio, condotto su 42 persone, o il secondo, condotto su 200? L’ampiezza del campione è già, di per sé, un punto importante. Nelle linee guida per la riproduzione di un esperimento, del resto, si suggerisce sempre di agire su una popolazione più grande, per determinare gli effetti e la portata del fenomeno studiato. In questo caso, era pressoché nullo. Difficile pensare che sia il primo a essere sbagliato. È molto più probabile che sia stato il primo, invece, a dare risultati fortunati ma, in realtà, del tutto casuali.
Questo, purtroppo, è un problema che riguarda molti, moltissimi studi nel campo della psicologia: come dimostra il Reproducibility Project, un progetto di riproduzione di 100 studi psicologici pubblicati, solo in 36 casi gli esperimenti hanno ripetuto i risultati ottenuti la prima volta. Una media bassina, che dovrebbe fare un po’ riflettere. Soprattuto quelli che, tenendo pose innaturali e altezzose, hanno creduto di poter accrescere la propria autorevolezza.