Estate 1959 a Castle Rock, Oregon: apatica, torrida, sonnacchiosa, scandita dalle sequenze musicali della radio locale. Ma ecco che un elemento imprevisto rompe la continuità e offre a quattro dodicenni l’occasione irresistibile per un’ultima avventura prima del ritorno a scuola: “Ragazzi, vi va di vedere un cadavere?”
Anche Stand by Me – Ricordo di un’estate, come altri grandi classici generazionali, compie 30 anni. È uscito nell’estate del 1986 per la regia di Rob Reiner (Harry ti presento Sally, per dirne uno) e il modo efficace con cui racconta le paure e i lati oscuri della preadolescenza è dovuto al suo essere tratto – e in maniera piuttosto fedele – dal racconto di Stephen King Il corpo, pubblicato un paio di anni prima nella raccolta Stagioni diverse.
Lo spunto è semplice e geniale. Quattro ragazzi non ancora tredicenni interrompono le letture di fumetti e le partite a carte nella casa sull’albero per dedicarsi a un’avventura, andare cioè a vedere il loro primo cadavere: il corpo di Ray Brower.
Non si tratta di un cadavere qualsiasi: per quanto sconosciuto, Ray Bower è un loro coetaneo. Era andato a raccogliere mirtilli lungo la ferrovia ed era scomparso, probabilmente travolto dal treno in corsa. Vederlo con i propri occhi significa capire che la morte non è una faccenda che riguarda solo i bisnonni che puzzano di naftalina. Il piano è riportarlo a casa, prendersi il merito del ritrovamento e diventare celebri.
Spinti da questo nobile movente, i ragazzi, dopo aver gabbato i propri indifferenti genitori, si incamminano dunque come degli hobos lungo i binari della ferrovia, verso il loro primo, autentico contatto con la morte. Un modo come un altro per descrivere il passaggio dall’infanzia alla giovinezza: meno stucchevole della prima storia d’amore e meno rocambolesco di una battaglia contro oscure forze del male.
A Castle Rock, cittadina immaginaria del Maine – che nel film diventa dell’Oregon – King ha ambientato più di una storia, come Cujo – per altro, citato ne Il corpo – o La metà oscura. È un luogo squisitamente kinghiano: c’è la ferrovia, così iconica nei film americani – si pensi a Pomodori verdi fritti alla fermata del treno –; c’è un fiume malinconico – il Castle – che sembra uscito da una canzone di Bruce Springsteen; e ci sono le villette di provincia con dentro famiglia di provincia. La banalità del male nei sobborghi americani.
Un’atmosfera che è stata recentemente ricreata dalla rivelazione di Netflix di questa estate: lo sci-fi/horror drama Stranger Things, omaggio raffinato agli anni ’80 e alla loro cinematografia, e soprattutto grande ritorno di “Winona forever” (grazie Matt e Ross Duffer).
Anche qui c’è un’anonima cittadina, un gruppo di ragazzini che vanno in giro in bicicletta e lottano con le fionde, l’irruzione dell’elemento misterioso/soprannaturale (la scomparsa del piccolo Will Byers) e la spaccatura dell’azione tra le varie generazioni, ognuna con il proprio punto di vista: i bambini (gli amici di Will), gli adolescenti (i fratelli maggiori) e gli adulti (genitori e autorità).
Questi ultimi, nel film di Reiner, sono invece praticamente inutili, minacciose presenze di sfondo. È il caso delle figure paterne, una più inquietante dell’altra. Gordie, narratore della vicenda (futuro scrittore, alter ego di King, di Reiner e un po’ di tutti gli spettatori) ha un padre assente e glaciale, che aveva riposto tutte le aspettative e l’entusiasmo nel defunto fratello maggiore di Gordie (John Cusak), giocatore di football e incarnazione di tutte le cose che un buon padre di famiglia americano può desiderare per la sua prole.
Il padre di Chris (migliore amico di Gordie e capo della banda, interpretato da River Phoenix) è invece un alcolizzato violento. E mentre poco si sa della famiglia di Verne (che nel racconto è solo stupido e nel film diventa stupido, pavido e grasso), il più biasimabile è senza dubbio il signor Duchamp, veterano dello sbarco in Normandia e padre di Teddy, il più matto della banda, e non a caso: il padre gli ha carbonizzato entrambe le orecchie sulla stufa per poi essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico per veterani.
Il personaggio di Teddy, che incarna l’incoscienza e il delirio di onnipotenza dell’infanzia, è interpretato da una vecchia conoscenza dei film generazionali anni ’80: quel Corey Feldman chesi rivede parlare un mellifluo spagnolo nei Goonies e che, stando alle indiscrezioni, ha iniziato a fumare erba proprio con River Phoenix sul set di Stand by Me, grazie a un tecnico del suono che accettò di fargli provare il suo bong.
Non sono tanto i padri però i nemici con cui confrontarsi in questa storia. Sono piuttosto la morte stessa (quella di un loro coetaneo), le dinamiche sociali che dal mondo degli adulti si riflettono anche tra i ragazzi, e i rapporti di amicizia, che possono essere la salvezza ma possono anche legarti a un avvenire mediocre.
Certo, non mancano anche i nemici concreti e un po’ grotteschi, del genere della banda di italiani mammoni dei Goonies. Il gestore della discarica con il “temibile” cane Chopper, la professoressa di Chris che ha comprato una gonna nuova con i soldi da lui sottratti (e restituiti) continuando a farlo passare per ladro, e soprattutto la banda rivale, quella dei fratelli più grandi, anche loro sulle tracce del corpo. Una gang di mezzi delinquenti – tra cui il fratello di Chris e quello di Verne – che ricorda da vicino IT per la dinamica molto violenta che intercorre tra i due gruppi rivali.
La vera violenza del film però è un’altra. La gita che i ragazzi compiono nell’ultimo scampolo d’estate è alla vigilia del loro ingresso al ginnasio, che determinerà una rigida, irrimediabile separazione di classe.
Chris, Verne e Teddy seguiranno i corsi di avviamento professionale, mentre Gordie farà i corsi pre-universitari. Durante la conversazione intima tra Chris e Gordie, fulcro drammatico del film, Chris si confessa privo di prospettive, impantanato nella povertà e nella cattiva fama della sua famiglia, mentre lui, Gordie, ha il dono di saper raccontare storie e non deve sprecarlo per stare dietro a Chris e agli altri, già condannati a un futuro mediocre, se non peggio.
Ed è proprio sul personaggio di Chris, saggio e cupo, che si abbatte la crudeltà peggiore del film. Riuscirà a frequentare i corsi pre-college, riuscirà ad andarsene da Castle Rock e a diventare avvocato. Ma la sua storia di riscatto terminerà comunque prima dei 40 anni, durante una rissa in un bar in cui Chris rimarrà ucciso nel tentativo di mettere pace tra i contendenti. (Niente rivalsa sociale, come accade invece nell’esilarante e catartica storia di Sacco di lardo – in origine lardass – che Gordie racconta agli amici davanti al fuoco.)
Il ritrovamento effettivo del cadavere – che nel racconto avviene sotto una pioggia torrenziale – coincide con il momento di massimo scontro tra le due bande. King descrive il corpo senza risparmiarsi i dettagli, con gli occhi spalancati e vitrei e uno scarabeo che gli esce dalla bocca. Nel film il ritrovamento ha una dimensione più emotiva: l’identificazione, per Gordie, della morte di Ray Brower con quella di suo fratello Denny.
In genere le differenze tra il libro e il suo adattamento cinematografico, a parte il luogo e l’anno (Maine 1960 Vs Oregon 1959), si concentrano nel finale (la più importante: nel racconto non muore solo Chris ma tutti e tre gli amici di Gordie) e sono spesso legate all’egocentrismo di Rob Reiner (che per esempio ha voluto che nell’ultimo scontro fosse Gordie e non Chris a tenere la pistola, perché si identificava di più con il suo personaggio).
Bruce A. Evans, produttore e co-sceneggiatore del film, anni dopo ha raccontato come sia stato difficile trovare finanziamenti. Gli studios non erano interessati alla storia di quattro dodicenni su un binario ferroviario: era cupa, non c’era nessuna ragazza… “Eppure noi”, spiega Evans, “eravamo stuzzicati proprio dal fatto che si trattava di una storia di coming-of-age senza ragazze o primi baci e roba simile. Si trattava di bambini che diventano consapevoli della propria mortalità”.
Un importante Leitmotiv del film è rappresentato dalle note della radio locale, che introduce una colonna sonora molto estiva e molto d’epoca, con Everyday di Holly Buddy, Lollipop delle Chordettes e, naturalmente, Stand by me di Ben E. King. Ma è più di tutto la voce over di Gordie adulto che tira le fila della storia.
E se nel finale il suo commento di rimpianto nei confronti delle amicizie giovanili (“Non ho più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù, chi li ha”) può essere un po’ stucchevole, l’attacco iniziale invece restituisce perfettamente la poetica del film di cui parla Bruce Evans.
È chiaro, sinottico e in medias res: “Non avevo ancora 13 anni la prima volta che vidi un essere umano morto”.