Elogio dei giovani occidentali che combattono l’Isis assieme ai curdi (e imbarazzano noi)

Karim Franceschi e tutti gli altri: ragazzi che, in molti casi, non avevano mai preso in mano un’arma sono andati a combattere in Siria contro lo Stato Islamico. Nel nome dei nostri valori, mentre noi eravamo convinti di battere il radicalismo islamico a colpi di marce e gessetti colorati

Che cosa ci fa nel deserto di pietre del Kurdistan occidentale, nel Rojava (pronuncia: Rajavà) un torinese con la testa arrotolata in una sciarpa a fiori e un mitra a tracolla? Cosa ci fanno a Kobane, anche loro con i curdi dell’Ypg, un ex marine americano, un disoccupato di Senigallia, una guardia del corpo svedese, cioè i protagonisti del documentario “Our War” che venerdì prossimo sarà presentato a Venezia? E quanti sono i giovani occidentali nella legione straniera curda che combatte contro l’Isis, i foreign fighters “dalla parte giusta” di cui nessuno parla? L’imbarazzo davanti a queste figure è palpabile, in un Occidente che ha scelto la retorica pacifista delle candeline accese e dei gessetti per qualificare la sua reazione al Califfato. Ma, più oltre, c’è il fatto che queste teste calde, questi venti/trentenni col kalashnikov risultano personaggi assai scomodi in patria: quello del Rojava, per dirne una, è stato identificato per Davide Grasso, attivista No-Tav condannato a sei mesi per l’assalto al Geostudio: il senatore Stefano Esposito, portabandiera del Sì-Tav, si è arrabbiato tantissimo quando lo ha visto, respingendo l’idea che «chiunque possa partire imparare ad usare un mitra, tornare in Italia e magari diventare pure una icona positiva per certi mondi».

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Karim Franceschi, nel suo libro “Il combattente», racconta di essersi addestrato all’uso delle armi dell’Ypg studiando per mesi video tutorial su internet, senza mai aver visto una pistola. E Joshua Bell, l’ex marine protagonista di Our War, ha raccolto i 3.500 dollari che gli servivano per raggiungere l’Ypg con una colletta su Facebook e con una campagna di crowfunding su GoFundMe

E però questa voglia di esporsi, di stare sulla prima linea delle guerre, esiste. E se nel migliore del caso una stampa mitraditizzata dal politicamente corretto ci ha trovato dentro le Brigate Internazionali spagnole, ci si vedono in realtà moltre altre cose più legate all’avventura che alle Buone Cause, tipo la Legione Straniera, o anche certi mercenari di metà Novecento («Son morto nel Katanga, venivo da Lucera», come cantava Pino Caruso nell’unica ballata mai dedicata alla categoria) e persino l’ineffabile Yanez, il portoghese che finisce per sposare la causa della lotta anti-inglese insieme a Sandokan, oppure gli universitari stranieri che – invece di farsi gli affari loro – occuparono il Politecnico di Atene con gli studenti greci.

Queste confuse e minoritarie decisioni esistenziali sembrano avere poco a che fare con la Generazione Pokemon Go, eppure esistono, e si incrociano con la padronanza della rete che normalmente associamo a profili un po’ nerd: Karim Franceschi, nel suo libro “Il combattente», racconta di essersi addestrato all’uso delle armi dell’Ypg studiando per mesi video tutorial su internet, senza mai aver visto una pistola prima di entrare come soldato semplice nei ranghi della formazione dove avrebbe poi scoperto una speciale abilità da cecchino. E Joshua Bell, l’ex marine protagonista di Our War, ha raccolto i 3.500 dollari che gli servivano per raggiungere l’Ypg con una colletta su Facebook e con una campagna di crowfunding su GoFundMe.

Il politicamente corretto si fonda appunto su questo, sul non prender parte e rifugiarsi nel generico – molte trombonate sulla Guerra al Terrore con le maiuscole, e fiaccole, e fiori sui luoghi degli attentati, e icone con le bandiere sui social, e tutta la retorica Je Suis Charlie – dove convogliare le lacrime e le paure dell’Europa

Alla diffidenza “culturale” per questo tipo di scelte – scelte che non sappiamo più capire, e siamo tentati di liquidare nel novero delle stupidaggini che si fanno da giovani – si unisce, nei media occidentali, la palese difficoltà politica a maneggiare la questione curda, e quella dell’Ypg in particolare. Che non si può tenere insieme l’apprezzamento per la guerra dei curdi all’Isis con lo schema geopolitico secondo cui lo Stato “amico” su quello scacchiere è la Turchia di Erdogan, che dei curdi è storico persecutore. Né questi curdi sono catalogabili negli schieramenti delle due superpotenze, nel giochino pro o contro Assad su cui si decideranno i destini della guerra, giacché i continui rovesciamenti di fronti e di alleanze rendono mutevole la loro posizione nel Risiko: a inizio anno sembravano destinatari di aperture del leader siriano, due mesi fa sono stati protagonisti della battaglia di Aleppo, poi il nuovo dialogo tra Siria e Turchia li ha resi nuovamente “apolidi”, ora chissà…

Sta di fatto che la prima linea contro l’Isis l’hanno tenuta loro, e che la suggestione anche romantica di questa causa di popolo, con le sue donne libere e combattenti, senza velo, e la sua lunghissima vicenda di rivendicazione di autonomia, è l’unica storia chiara nella matassa aggrovigliata intorno al Califfato. Loro hanno tenuto Kobane casa per casa, mentre la coalizione internazionale stava decidendo se convenisse abbandonarla all’Isis o no. Loro se la sono ripresa, lasciando duemila morti sul terreno in una battaglia che molti hanno paragonato a quella di Stalingrado. Loro possono ragionevolmente rivendicare di essere stati per anni l’argine alla stravittoria dei nuovi Califfi in quell’area, e forse nell’intera guerra.

Ma parlare di “esempio curdo” è imbarazzante. Per anni l’Ypg è stata candidata (dalla Turchia, ovviamente) a entrare nella lista nera delle formazioni terroriste, e perciò esclusa dai vecchi colloqui di pace di Ginevra. E così anche le storie dei “Foreign Fighters al contrario” diventano più opinabili, meno presentabili, così come le foto dei reparti femminili che infatti sono sparite dal circuito dei grandi media. Perchè il politicamente corretto si fonda appunto su questo, sul non prender parte e rifugiarsi nel generico – molte trombonate sulla Guerra al Terrore con le maiuscole, e fiaccole, e fiori sui luoghi degli attentati, e icone con le bandiere sui social, e tutta la retorica Je Suis Charlie – dove convogliare le lacrime e le paure dell’Europa, insieme alla ripetizione ciclica degli allarmi profughi fondati sull’idea dell’ineluttabilità di una guerra senza fine, di un esodo permanente. Roba, insomma, che non impegna a nessuno a niente. La sinistra si appaga con le manifestazioni di massa dopo gli attentati; la destra con gli strilli televisivi contro gli immigrati. E ciascuno trova il contesto dove esercitare la cosa che da molto tempo ci viene meglio, il benaltrismo imbelle dove non ci sono “parti giuste” ma solo emozioni epidermiche: che orrore! Che mostri! Che scandalo! Che vergogna!

Nelle recensioni del libro e del documentario di Karim Franceschi, qualcuno ha usato una frase di Joseph Conrad per raccontare la genesi emotiva dell’arruolarsi, del prendere il fucile, citando la Linea d’Ombra e le «azioni avventate» che chi è ancora giovane si trova a commettere. Ma c’è molto Conrad anche nelle non-scelte dell’Occidente e dell’Europa, il Conrad di Lord Jim, il marinaio che aspetta tutta la vita l’occasione di dimostrare il suo valore e la forza dei suoi principi e poi, quando l’occasione si presenta, salta dalla nave e abbandona migliaia di pellegrini al loro destino. Per questo i Franceschi e i Bell ci mettono in difficoltà, sono quelli che non sono saltati, e un po’ ci fanno vergognare perché quando dicono «Our War», la nostra guerra, noi non possiamo associarci visto che in quella guerra stiamo a parole con loro, nei fatti da un’altra parte, a loro massimamente ostile.

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