Le vacanze sono la tomba del matrimonio: è a gennaio ed agosto, cioè nei periodi di controesodo, che si registrano i picchi più elevati di richieste di divorzio. Il dato lampeggia in una ricerca dell’università di Washington, citata dieci giorni fa dal Guardian. Quindici anni di studi sociologici per arrivare a concludere che “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” è una saggezza popolare male invecchiata e certamente non applicabile a occhi e cuori di mariti e mogli. In vacanza si sospendono il lavoro, le cene con gli amici, la palestra, il calcetto, le lezioni di sitar e tutto ciò che cadenza la vita quotidiana riducendo tempi e spazi da condividere col proprio coniuge. Accade così che si finisca con il conoscersi e lo scoprirsi, trovandosi irrimediabilmente cambiati da quel pomeriggio in cui si pattuì che ci si sarebbe avventurati nella vita mano nella mano, anulare nell’anulare, fino al sopravvenire della morte.
Quel mezzobusto con il quale ogni giorno si condividono i pasti e le domande di rito ai propri figli, in vacanza diventa una persona in scala 1:1. Ed ha voglia di parlare. Di fare l’amore. Di discutere di attualità. Di raccontare segreti e farsene raccontare. Di andare a ballare. E non c’è scampo: non c’è una consegna di lavoro improrogabile, una riunione di condominio, un amico nei guai con cui togliersi dall’impiccio. Tocca guardare quell’ex mezzobusto negli occhi e dirgli sì o no, diverse volte al giorno per almeno quindici giorni.
Ne consegue una carneficina della quale il Guardian ha ritenuto di dare notizia in margine a un articolo che spiega l’assoluta necessità di entrare in un sistema di divorzio che sia “no fault”, cioè in un sistema che faciliti l’iter legale dei divorzianti, essendo l’attuale così intricato e lungo da assomigliare a una punizione. Questa medesima obiezione veniva mossa in Italia durante l’acceso dibattito che portò poi all’approvazione della legge sul divorzio breve, che il parlamento italiano varò l’anno scorso con 398 sì, 28 no e 6 astenuti e grazie alla quale si può porre fine a un matrimonio, senza passare dal giudice, in un tempo che va da un minimo di sei mesi a un massimo di dodici dopo la separazione (prima erano necessari tre anni).
In Inghilterra e nel Galles, il solo modo di divorziare in fretta è dimostrare che sia stato commesso adulterio o che il marito o la moglie o entrambi soffrano di disturbi del comportamento, in caso contrario tocca aspettare, illanguidirsi, pagare avvocati. Tuttavia, gli psicopatici, gli schizofrenici, gli irosi e gli adulteri tendono a rimanere uniti: è più frequente che divorzino persone normali convinte che il matrimonio sia un’alchimia di spiriti, che per la sopportazione non esistano palestre, che l’amore debba essere sempiterna condivisione di tempi, spazi, vedute. A queste persone, però, la legge inglese non va incontro, quindi sono costrette o a inventare adulteri o a finire con lo scannarsi per dimostrare di soffrire di disturbi, probabilmente finendo con l’ammalarsene davvero.
In vacanza, tocca guardare quell’ex mezzobusto negli occhi e dirgli sì o no, diverse volte al giorno per almeno quindici giorni. Ne consegue una carneficina della quale il Guardian ha ritenuto di dare notizia in margine a un articolo che spiega l’assoluta necessità di entrare in un sistema di divorzio che sia “no fault”, cioè in un sistema che faciliti l’iter legale dei divorzianti
A fare sì che il disequilibrio tra la facilità con cui ci si sposa e la difficoltà con cui si divorzia venga colmato, lavorano diverse associazioni che impiegano avvocati e giudici. Una di queste, Resolution, presieduta da Nigel Pastore, riassume bene, nel suo statuto, il cambiamento culturale che sta dietro questa de-responsabilizzazione e normalizzazione del divorzio: “promuoviamo un approccio ai problemi delle famiglie che non sia conflittuale”. Un matrimonio non deve necessariamente finire nel sangue. Il divorzio, addolcito, incivilito, spinto verso l’avanguardia delle pratiche legali, sembra quindi pronto a smettere di essere l’opposto del matrimonio, diventandone una fase, sempre più ineludibile, come è il carattere individuale (dei propri dati caratteriali nessuno ha colpa).
Sacrosanto: le coppie scoppiano. Nessun patto è irreversibile e scioglierlo, poiché la legge lo consente, non può comportare procedure economicamente e psicologicamente sevizianti. Questo, tuttavia, non dovrebbe trasformare chi stralcia un patto in una parte lesa. Divorziare non può che essere più complicato che sposarsi, perché divorziare non può essere un capriccio (lo stesso Guardian, a luglio, ha pubblicato un articolo in cui spiegava come, incrociando i dati di diverse ricerche svolte in vari paesi occidentali, sebbene il divorzio sia socialmente più accettato e quindi più facile da metabolizzare per un bambino, su di lui i suoi effetti permangono tuttora assai forti: non c’è modo di assorbirli, neppure assorbendo, come sta accadendo, il divorzio alle pratiche di vita quotidiana, dentro una normale dialettica di “errore-riparazione”).
Il fatto che il divorzio indebolisca i suoi soggetti non apre ancora una discussione sul suo merito, anzi. S’assiste al proliferare di una idea per cui debba essere previsto un risarcimento sociale per chi ha voluto credere nel matrimonio e sottolineare che il suo mantenimento dipende da chi l’ha contratto appare quasi retorica fascista. In America esiste un sito di crowdfunding per aiutare chi divorzia: la piattaforma è stata ideata dai coniugi Margulis, che hanno furbescamente trovato il modo di arricchirsi dai divorzi altrui senza essere avvocati. Su Plumfund, infatti, è possibile versare un contributo libero per aiutare ex mogli ed ex mariti ad affrontare le ingenti spese del loro addio.
«Il nostro è un modo per dire loro che non li lasciamo soli», ha dichiarato Sara Margulis, raccontando di divorziandi depressi, infelici, ammutoliti, impoveriti e straziati, in fondo invitando la società civile a prenderli in carico (al crowdfunding si ricorre sempre di più per farsi finanziare gli azzardi, in modo che il peso delle proprie responsabilità sia evanescente: pochi mesi fa una famiglia chiese di farsi finanziare il proprio cambio vita, dalla città alla campagna, dall’ufficio ai campi, dalla scuola all’istruzione privata).
Chi si avventura nelle impervie lande del sì eterno è un filantropo avventuriero: se gli va male, è giusto che l’umanità intera lo risarcisca. No?