“Il problema è che in Italia i magistrati vogliono fare gli scrittori, e gli scrittori vogliono fare i magistrati”, scrisse qualche anno fa Ottavio Cappellani, sfottendo l’ansia “morale” del milieu letterario italiano e, allo stesso tempo, la tensione “immaginativa” di certi giudici. Bene, Gianrico Carofiglio di sicuro non ha ambizioni frustrate: ha attraversato entrambi i mondi. Uno dei più noti scrittori italiani: molto letto, molto tradotto, quasi-vincitore allo Strega (nel 2012 con Il silenzio dell’onda) è stato anche, tra l’altro, sostituto procuratore della Dda di Bari (oltre che senatore Pd durante la XV legislatura).
Carofiglio è il thriller legale all’italiana, anche se preferisce, a ragione, che l’etichetta di letteratura “di genere” non gli venga così strettamente applicata. Per esempio il suo ultimo romanzo, L’estate fredda, appena uscito per Einaudi, è sì la storia di un’investigazione, ma il noir e il giallo sono documento e pretesto per raccontare i feroci anni 90, via D’Amelio e Capaci, il filtrare della malavita organizzata da una regione all’altra d’Italia. Il romanzo è un pezzo di storia raccontato attraverso piccole (e a volte dolorosissime) trame, personaggi storici (Giovanni Falcone emerge, come se lo ricorda l’autore, che l’ha incontrato di persona), e un bel protagonista “partigiano”: il maresciallo Pietro Fenoglio (già al centro di Una mutevole verità). E c’è anche un gioco formale, linguistico, di messa in scena. Molte delle vicende del libro, spesso quelle più cruente, sono raccontate attraverso i verbali di interrogatorio dei malavitosi. Con il linguaggio tipico, asettico, distaccato, ma con la ferocia dei fatti. «L’idea è usare i verbali per fare una specie di doppio salto mortale letterario» spiega Carofiglio a margine della presentazione romana del libro «prendere una lingua che in passato ho criticato, quella astratta della burocrazia, usarla per raccontare fatti spaventosi, tutti ispirati a cose accadute davvero, renderli astratti, e creare un effetto surreale, quasi teatrale» conclude.
Pensa di esserci riuscito?
Deve essere il lettore a dirlo: a me interessava rendere lo sgomento che passa attraverso il linguaggio burocratico usando una forma appunto “sospesa”, quasi teatrale. Infatti il libro è diviso in tre atti. È una specie di dramma teatrale, ritualizzato.
A proposito di rituali: nel libro sono descritti quelli della allora nascente e già molto combattiva Sacra Corona Unita. Da quello di affiliazione, fino a quelli della Santa, si tratta di simbolismi e riti che hanno origine in Calabria, e sono stati “esportati” in Puglia…
Sì, come una specie di franchising del crimine.
Per quali motivi quella calabrese oggi è la mafia più pericolosa, dopo il relativo declino di Cosa Nostra?
Proprio negli anni 90 Cosa Nostra ha giocato a volersi fare interlocutore dello Stato con gli strumenti di persuasione di cui è dotata. Ha giocato e ha perso. La sua debolezza poi era di essere un’organizzazione verticistica. Più potente ma più esposta. Se si pente uno vicino al vertice dell’organizzazione può raccontare tutto. Se la magistratura colpisce il vertice dell’organizzazione può disarticolarla. La ‘ndrangheta, almeno fino a un certo punto, ora non so di preciso, è stata chiamata “mafia liquida”, perché è strutturata in tante piccole realtà “cellulari”, indipendenti.
Alla fine della legislatura avrei potuto tornare a fare il magistrato. Ma non ci riuscivo. Volevo scrivere, e mi sarebbe sembrato di rubare lo stipendio, magari imboscarmi a scrivere i miei libri durante l’orario di lavoro. Sarebbe stato non dignitoso. Pensavo che avrei sporcato tutto quanto
Nella società liquida vince la mafia liquida…
Se colpisco le ‘ndrine di Locri, o Sinopoli, le altre restano in piedi. Poi, come le cellule tumorali, la ndrangheta ha la possibilità di riprodursi dappertutto, dalla Germania al Nord Italia. E questo ne fa la mafia più pericolosa dell’Europa Occidentale.
Si parla di ndrangheta presente a Milano e in tutt’Europa. C’è una polemica anche politica sull’appartenenza della ndrangheta al Sud o al Nord. Ma se le si togliesse il territorio potrebbe continuare a sopravvivere?
Non sarebbe lo stesso. La metafora efficace è quella delle radici. La ndrangheta è una mafia radicale, nel senso che è fortemente munita di radici. È chiaro che c’è da fare un intervento molto deciso sul territorio di origine. Ma se uno dopo aver fatto la bonifica non fa la profilassi il problema ritorna.
Giovanni Falcone disse: “non bisogna confondere la mafia e la mentalità mafiosa: conosco tante bravissime persone che hanno una mentalità mafiosa”. È credibile una lotta alle mafie fatta combattendo la mentalità mafiosa? Ci crede alla lotta alle mafie fatta con la cultura?
Ci credo con molte riserve. Spesso c’è una sorta di compiacimento nel creare iniziative culturali contro le mafie. Chi le organizza si sente coraggioso e con la coscienza a posto. Ma il vero impegno deve essere quello della pretesa quotidiana del rispetto delle regole.
Ancora Falcone: nel libro appare lui
Era uno che quando poteva scappare alla scorta e fare qualcosa libero lo faceva. Mi ha fatto capire che la prima virtù civile è la normalità
Momenti brutti da giudice
Una volta un pentito mi disse: “tu si’ Carofiglio? Il boss X tiene cattive intenzioni”. Uno che si prese due ergastoli.
Cosa le ha dato la scrittura che il lavoro di magistrato non le dava?
Sono due lavori che mi sono piaciuti tantissimo. Le gratificazioni della scrittura sono enormi. Non me lo sarei mai sognato, nemmeno in my wildest dreams, come dicono gli americani. Mi sarebbe piaciuto già solo scrivere un romanzo, poi avrei tolto il disturbo. Detto questo il lavoro di investigatore è bellissimo. Ho fatto per cinque o sei anni entrambe le cose. Poi, nel 2007, ho avuto un posto di consulente nella commissione antimafia. Un lavoro interessante, ma che mi lasciava il tempo per scrivere. Poi è arrivata la candidatura. Alla fine della legislatura avrei potuto tornare a fare il magistrato. Ma non ci riuscivo. Volevo scrivere, e mi sarebbe sembrato di rubare lo stipendio, magari imboscarmi a scrivere i miei libri durante l’orario di lavoro. Sarebbe stato non dignitoso. Pensavo che avrei sporcato tutto quanto rubacchiando il tempo per fare altro.
Bene, allora parliamo del suo lavoro di scrittura. Come funziona?
Prima di cominciare a scrivere devo avere chiaro il plot, altrimenti si finisce come tanti grandi scrittori che perdono spunti per strada. Uno di questi, che per tanti aspetti è un grande scrittore, è Paul Auster. Lascia i fili appesi in modo impressionante, pur essendo un raccontatore di atmosfere formidabile. A me non piace lasciare fili appesi: l’unica tecnica sicura per questo è sapere dove vai a finire.
Quanto scrive al giorno?
Ho il blocco dello scrittore tutti i giorni. Non mi ricordo un momento che scrivere mi sia venuto spontaneo e naturale. I primi mesi scrivo pochissimo. Se ho fantasia lo dimostro più che altro in quei casi: trovo una enorme quantità di espedienti per sfuggire al lavoro. Poi, man mano che mi avvicino alla scadenza, mi metto in moto. Stavolta è stato un gioco pericolosissimo, nel senso che a maggio non c’era niente e dovevo consegnare dopo l’estate. Non è stata un’estate fredda, è stata un’estate caldissima.
I bambini sono quasi un’ossessione, da quando lavoravo in magistratura. Quando c’erano delle vittime tra i bambini questa cosa mi ha sempre lasciato male. Ricordo brutte indagini, per esempio una bambina Rom, sparita nel nulla a un angolo di strada
Riscrive molto?
Quando rileggi hai la sensazione che quello che hai scritto sia scadente. Ed è davvero scadente. La scittura è l’arte del togliere. È materiale informe che devi levare. Detesto il libri in cui il linguaggio diventa un compiacersi. Da poco mi è arrivato un libro di cui si parlava benissimo. Alla quita pagina l’ho sbattuto contro il muro.
L’errore che tende a fare?
Troppi avverbi. Lo dice Stephen King, “l’avverbio non è tuo amico”. Per quanto io ci stia attento perché lo so, alla fine uno fa il controllo, mette nella casella di ricerca “mente”, e viene fuori il diavolo. Ma è spiegabilissimo: quando sei in difficoltà a scrivere metti un avverbio e riempi spazio.
La sofferenza dei bambini sembra un motivo ricorrente, in molti suoi libri
I bambini sono quasi un’ossessione, da quando lavoravo in magistratura. Quando c’erano delle vittime tra i bambini questa cosa mi ha sempre lasciato male. Ricordo brutte indagini, per esempio una bambina Rom, sparita nel nulla a un angolo di strada. Facemmo di tutto. Intercettazioni, arrestammo gente, ed erano le persone sbagliate. Seguimmo ogni tipo di ipotesi. Alla fine trovammo il corpo della bambina, in un luogo isolato. Dissi: “sorvegliate il posto, perché questi tornano”. Dieci giorni dopo trovammo un personaggio, intento a masturbarsi. Lo arrestammo, facemmo indagini di ogni tipo. Per me è stato lui. Ma non ci fu modo di provarlo. Queste cose ti restano.