Lo sforzo con cui la famiglia Stefanel ha resistito ai colpi della crisi che ha colpito il marchio nell’ultimo decennio si potrebbe definire eroico. Alla decisione di chiedere il concordato il preventivo (anticamera del fallimento) il gruppo veneto non è arrivato alle prime difficoltà ma dopo dieci anni di continue perdite. Dal 2007 al 2015 sono stati bruciati 176 milioni di euro, con una successione di risultati netti negativi che si è interrotta solo nel 2011 e solo per effetto della vendita di un pezzo pregiato dell’argenteria di famiglia, la rete di duty free di Nuance. Nel frattempo, di cessione in cessione, il fatturato del gruppo si è dimezzato. Sono arrivati due aumenti di capitale negli ultimi sei anni, che hanno svuotato le casse delle tre principali società azioniste, due delle quali sono in liquidazione mentre la terza andrà anch’essa in concordato preventivo. Per una beffa del destino, a questo si è aggiunta la perdita di 5 milioni di patrimonio personale di Giuseppe Stefanel a causa della svalutazione delle azioni di Veneto Banca.
Mentre l’ennesimo nome del Made in Italy finisce nella polvere, e in attesa di capire cosa porteranno i prossimi sei mesi, è tempo di farsi qualche domanda. Era inevitabile seguire questo percorso di declino? C’è spazio anche per le imprese italiane nella stretta infernale tra il fast fashion di Zara, H&M e Primark nella fascia medio-bassa e il lusso francese in quella alta?
Per arrivare a una risposta è necessario partire da una domanda: “Che cos’è oggi Stefanel per un cliente?”. O se vogliamo metterla in termini di marketing, qual è la sua value proposition? È il prezzo? La qualità del prodotto? Il concetto? I suoi negozi? Il fatto che una risposta a queste non arrivi immediatamente è indice di una debolezza, peraltro storica e a cui il marchio ha provato a porre rimedio attraverso un riposizionamento verso l’alto negli ultimi anni. Non è una debolezza che ha contraddistinto la sola azienda trevigiana. Ci sono storie, come quella della società Mariella Burani e di Ittierre, che la ricordano. «Sono vicende di produttori che sono cresciuti in fretta ma che lo hanno fatto attraverso strumenti che non hanno saputo controllare pienamente», dice Stefania Saviolo, direttore del Knowledge Center Luxury & Fashion Master presso la Sda Bocconi. Il mercato del retail, fatto di economie di scala sempre più vertiginose e di margini risicati, non fa sconti di fronte a queste incertezze.
La domanda da porsi è “Che cos’è oggi Stefanel per un cliente?”. Il fatto che una risposta a queste non arrivi immediatamente è indice di una debolezza
La storia di Stefanel, nata come “Maglificio Piave”, inizia con un’identità chiarissima: è un produttore di maglieria che sa fare benissimo il proprio mestiere. Dal 1980 Stefanel diventa anche un retailer: ha negozi di proprietà ma anche in franchising. All’estero si espande con dei partner. Ben presto, nel 1987, si quota. In seguito effettua una serie di acquisizioni, come quelle di Nuance e di Interfashion. In quello che appare un percorso solo positivo si intravedono però dei problemi: «È una traiettoria che progressivamente perde il suo focus», spiega Stefania Saviolo. Nei negozi, molto estesi, non si possono mettere solo prodotti di maglieria. Si aggiungono i jeans e altri capi. Progressivamente, aggiunge Saviolo, «c’è una distrazione dal motivo per cui si sta sul mercato». Anche la distribuzione in franchising non aiuta, perché permette un controllo modesto del cliente finale. Tutti questi minus, in realtà, sono in secondo piano finché regge il principale punto di forza di Stefanel: fare buoni prodotti, seppur senza eccessi di stile, per la fascia media. Chi non vuole comprare i vestiti dei Magazzini All’Onestà e non può permettersi il pret-a-porter, ha in un marchio come Stefanel (ma non solo) un’ottima soluzione.
Solo che a un certo punto questa fase storica finisce, perché cambiano sia la domanda che l’offerta. Dagli anni Duemila i consumi, in vari ambiti, si vanno polarizzando e nella moda arriva il fast fashion di H&M e Zara: sono retailer, con una logica molto diversa dai player italiani, nati dalle fabbriche tessili. Seguiranno molti altri, tra cui Primark, da poco sbarcato in Italia. I clienti recepiscono il messaggio della polarizzazione: chi prima si rivolgeva alla fascia media sempre più spesso sceglie un capo da pochi euro e uno di qualità alta, magari preso all’outlet (canale che non ha mai sofferto la crisi post-2008). I nuovi attori del fast fashion non offrono solo prezzo più basso, grazie a una combinazione di fattori di progettazione, produzione e approvvigionamento efficientissimo (spesso a scapito, va detto, delle condizioni di lavoro dei fornitori). Hanno anche una proposta stilistica più fresca e contemporanea, con collezioni che cambiano in continuazione. E, soprattutto, una “value proposition” molto chiara: da H&M si trovano capi con contenuto di stile per pochi euro (un jeans va da 19 a 34 euro). Da Primark sono capi praticamente usa e getta. E così via.
Le debolezze di Stefanel rimangono in secondo piano finché regge il principale punto di forza di Stefanel: fare buoni prodotti, seppur senza eccessi di stile, per la fascia media
Dalla metà degli anni Duemila gli utili di Stefanel si assottigliano, nel 2005 e 2006 sono attorno al milione di euro. Quando cominciano le perdite, a partire dal 2007, il marchio cerca un riposizionamento verso la fascia alta, assume stilisti, un fotografo di punta, modelle di primissima fascia come testimonial. Il lusso accessibile, tuttavia, non è un ambiente semplice. Ci sono anche attori italiani con un posizionamento chiaro e un buon prodotto nella fascia medio-alta, come Twinset, Fabiana Filippi o Falconeri. Non è neanche semplice far cambiare l’idea che gli altri hanno di te. «Il brand lavora nell’inconscio, il riposizionamento è sempre un’operazione difficile, a volte serve una generazione perché sia completo», spiega Luciano Giannetti, Ceo e Senior Partner di GEA-Consulenti di Direzione. «Così una maglia da 100 a 200 euro o dei pantaloni tra 100 e 180 euro si vanno a scontrare con un concorrente come Seventy, visto però dai clienti con un contenuto moda superiore».
Alcuni marchi, anche italiani, come Ovs, hanno saputo riposizionarsi, trovando una loro storia da raccontare. Più difficoltà hanno avuto Benetton e Coin. Ma cambiare posizionamento non è facile quando si è in un vortice di indebitamento. «Si poteva ragionare di una crescita dimensionale, attraverso una migliore presenza all’estero, fino a dieci anni fa – commenta Giannetti -. Successivamente, l’azienda è stata in un loop: è stata sempre più indebitata, ha dovuto cedere pezzi e non ha potuto investire quanto sarebbe stato necessario». Una variabile chiave, che ha penalizzato Stefanel molto più di un gruppo come Benetton (che ha molte altre entrate, dalle Autostrade agli Autogrill) è la dimensione: il gruppo non è mai andato sopra i 316 milioni di fatturato (del 2007) e la capogruppo sopra i 175 milioni.
Quando cominciano le perdite, a partire dal 2007, il marchio cerca un riposizionamento verso la fascia alta, assume stilisti, un fotografo di punta, modelle di primissima fascia come testimonial. Il lusso accessibile, tuttavia, non è un ambiente semplice
Oggi insomma, dopo la chiusura in pesante rosso del primo semestre 2016, la storia di uno dei campioni del Made in Italy dei ruggenti anni Ottanta è arrivata vicina al capolinea. Con la richiesta di concordato preventivo ci sarà un nuovo tentativo di rinegoziare il debito da 85 milioni con un pool di banche. Una prassi che va avanti dal 2008 e che rende difficile immaginare la concessione di nuovi prestiti. Non si sa oggi come andrà avanti la faccenda, ma ci sono alcune strade possibili. Due, su tutte, spiega Giannetti. La prima è la più cruda e la più pericolosa per i lavoratori: la vendita dei negozi e la fine del marchio. Come una Melablu o un Bernardi, catene sparite e passate sotto le insegne del gruppo Coin. La seconda vedrebbe invece continuare la storia del marchio, sebbene con assetti proprietari diversi; ossia con un socio, commerciale o industriale, che interverrebbe a rilanciare le attività. A oggi questo “cavaliere bianco” all’orizzonte non si vede. Al giornale locale Oggi Treviso, dopo una riunione dei lavoratori il 3 novembre allo stabilimento di Ponte di Piave, un sindacalista ha dichiarato che una trattativa è in corso. E che quindi la mossa del concordato preventivo servirebbe a tenere lontani per 120 giorni (allungabili di altri 60) i creditori dai beni. Le banche avrebbero invece potuto cominciare a richiedere i pignoramenti dal 31 dicembre. Come spiega Stefania Saviolo, se finisse così sarebbe un percorso simile a quello che ha contraddistinto molti marchi in dissesto nella vecchia Europa, come Cacharel: arriva un partner, di quelli che hanno segnato lo sviluppo all’estero, che modifica il focus commerciale del brand. Solo i prossimi mesi diranno se la resistenza dei soci storici avrà come effetto almeno la continuazione del nome Stefanel nel mondo. Il marchio, per quanto ammaccato a livello finanziario, non è svilito e potrebbe avere un futuro.