Nel 1951, la legge Vanoni introduce per la prima volta in Italia la dichiarazione dei redditi. Ben un quindicennio dopo, Elsa Morante, scrittrice magnifica, senza la quale saremmo stati orfani e non figli del Novecento, non aveva ancora la minima idea di cosa volesse dire, né tantomeno di come se ne facesse una.
Le incombenze pratiche le aveva sempre lasciate al marito, Alberto Moravia, che quando gliele ricordava, con eroica amabilità, si prendeva pure del “piccolo borghese filisteo” (epiteti condivisi da molti nostri critici e scrittori à la page, che archiviano Moravia come bieco e noioso uomo d’establishment). “Cara Elsa, come al solito quando si parla di cose pratiche, tu ti arrabbi, eppure le cose pratiche esistono e influiscono a lungo andare (o anche immediatamente) sulle cose non pratiche, cioè sulle cose per le quali vale la pena vivere”, le scrive lui, nel ‘66, per ricordarle di andare dal commercialista a “concordare”, ovvero dichiarare le sue spese e consentire al fisco di bilanciare le tasse, evitando così di incappare in assai pepate multe (lui stesso aveva omesso di farlo per qualche anno e si era ritrovato con un’ammenda di venti milioni non rateizzabili). E aggiunge: “Tu non vuoi parlare di denaro, ma renditi conto che tutto questo non è denaro, bensì lavoro, fatiche, libri scritti”. Del resto, Giorgio Agamben ha detto di Elsa Morante che “era fin troppo consapevole che il mondo è soltanto apparenza”. Alla sua Elsina, invece, Alberto non dimenticava mai di ricordare che “non esiste che la realtà”. Lei credeva si potesse vivere nella prateria e lui, invece, non vedeva esistenza a lungo possibile fuori dalla staccionata.
Cara Elsa, come al solito quando si parla di cose pratiche, tu ti arrabbi, eppure le cose pratiche esistono e influiscono a lungo andare (o anche immediatamente) sulle cose non pratiche, cioè sulle cose per le quali vale la pena vivere
In quasi tutte le tante lettere che Moravia scrisse a Morante, dal ‘47 all’ 83, pubblicate per la prima volta da Bompiani nell’epistolario “Quando verrai sarò quasi felice”, in libreria dal 17 novembre, c’è un marito che si fa carico dei calcoli, della burocrazie, delle noie e una moglie riottosa incapace di coglierne il sacrificio (“sia chiaro, Elsa, che io sono un poeta, un’anima delicata, una persona che odia le cose materiali della vita come e più di te, se è possibile”) e, invece, abilissima nel confonderlo con la prova di come lui fosse un uomo organico al potere profano e di come ci si pavesasse l’ego. Così, anziché realizzare di ricevere una vita facilitata – e quindi imbellita -, Elsa Morante riteneva che Alberto Moravia la trainasse verso l’impoetico pensiero calcolante. Ti amo, Elsa, vorrei fare l’amore con te e comunque i soldi sono nel secondo cassetto a destra. Se vorrai andare via, Elsa, io lo capirò, ma vorrei che restassi perché non ho che te e comunque se deciderai di lasciarmi io farò tutto ciò che è in mio potere per garantirti una vita agiata e confortevole. Qui in Russia tutto bene, lascio dei rubli per te, in caso ti andasse di venire qui. Vuoi la macchina, Elsa, al tuo ritorno? Non sentirti ospite nello studio che ho comprato per te: era un tuo diritto e ora è casa tua. Elsa, ti prego, non restare a Roma in estate: vieni qui a Capri, ti lascio la mia stanza e se vorrai non vedermi, farò in modo che tu non mi veda.
Dal 1941, quando si sposarono, al 1985, quando lei morì (si separarono molto prima, ma non divorziarono), Alberto Moravia non smise mai di prendersi cura della sua Elsina, nemmeno quando lei si innamorò di Luchino Visconti o quando perse la testa per Bill Morrow, il pittore americano che morì suicida (Moravia lo aveva predetto: “vedrai che quel ragazzo pagherà l’arte con la vita”) e per il quale lei stessa provò a uccidersi (e indovinate chi rimase al suo capezzale, dopo, a darle da mangiare con il cucchiaino, mentre lei era solo capace di incolparsi per essere sopravvissuta: naturalmente lui, Moravia il filisteo, il piccolo borghese). Ma non lo fece mai secondo la regola paternalistica e assistenzialista delle canzoni di Franco Battiato: mai le disse che, per lei, avrebbe superato le correnti gravitazionali e lo spazio e la luce per non farla invecchiare, né che l’avrebbe guarita da tutte le malattie. Non le indicò neppure come vivere: la invitò a farlo.
A Moravia è stato impunemente dato del maschilista per decenni. Se davvero lo fosse stato, avrebbe stordito sua moglie di coccole e agi affinché la piantasse con la letteratura e pensasse ad abbinare il suo cervello al focolare domestico
La esortò a comprendere i compromessi necessari per essere serena abbastanza da poter scrivere (ai romanzi della Morante teneva più che alla felicità del loro matrimonio, che di quelli si illuse potesse essere la zattera). “Scrivi, Elsa, non privarci delle tue storie”; “sono così curioso di leggere il tuo lavoro”; “qui tutti mi chiedono di te”; “accetta la regia di Liliana Cavani per La Storia: è brava, saprà di certo rendere quello che hai voluto dire e tu attraverso la televisione potrai tornare tra le persone umili”. A Moravia è stato impunemente dato del maschilista per decenni. Se davvero lo fosse stato, avrebbe stordito sua moglie di coccole e agi affinché la piantasse con la letteratura e pensasse ad abbinare il suo cervello al focolare domestico. Invece, non solo non la, ma fu duro non tanto quando lei mancò d’amarlo e rispettarlo, quanto quando diede prova di carenza morale: “sono animato da un residuo spirito cristiano o altruista o chiamalo come ti pare che mi dice che non ci si deve sottrarre a certi obblighi verso gli altri. Tu questo spirito cristiano non ce l’hai” (le scrive dopo una delle solite sfuriate sulla dichiarazione dei redditi). Non accettava che Elsa peggiorasse. Non le consentiva di abbandonarsi a vezzi stolidi.
E, nello stesso tempo, curava la vita pratica di entrambi, anche se separati, dal matrimonio finito, dalla scrittura, dal mondo (non smise mai di mandarle cartoline e telegrammi – pensoti, abbraccioti, pensoti, abbraccioti -, per il compleanno, per l’estate, per i libri, per i premi, per il capodanno, per il Natale: dalla Mongolia, da New York, dal Canada, da Pechino “bella come Roma”, dall’Africa, da Parigi). Faceva il marito, Alberto Moravia. Cerca di mangiare bene, Elsa. Abbi cura di te. Qui fa freddo, lì fa caldo, lì c’è la guerra, là ti vogliono tutti bene, in albergo tutti hanno visto le tue foto, chissà come sei bella lì in montagna. “Il marito è tenuto a pagare le tasse dei redditi della moglie”. Lo faceva di buon grado. Le chiedeva decine di volte i documenti necessari. Lei s’infuriava. Lui glieli domandava ancora e ancora. E senza mai smettere di ricordarle che lei era l’unica, che loro avrebbero potuto salvarsi, che si scusava, tremendamente, per non essere stato mai capace di esprimere i suoi sentimenti, peccato che lei gli rinfacciò per tutta la vita, ossessivamente. Si scusava per le lettere “scucite” o troppo brevi. Si scusava per non essere bravo a piangerle addosso. Per non essere stato capace di renderla felice. “Io ti capisco, Elsa: ho sofferto quello che ti soffri”. Lei non mancava mai di porgergli il rendiconto dei suoi dolori e lui di farsi dilaniare da quel male che non aveva riparazione.
Nei giorni scorsi, è diventato “virale” uno spot australiano che inneggia alle lacrime maschili e invita gli uomini a manifestare il proprio malessere, a parlare dei propri sentimenti. Moravia era spesso disgustato da sé stesso, non si riprese mai dagli anni dell’infanzia trascorsi a letto per una lunga malattia, né dal fascismo, né dall’antisemitismo (“ha vissuto di violente rimozioni”, ha scritto di lui Alfonso Berardinelli, spiegando che lo scrittore non accennò mai al suo essere ebreo perché questo lo avrebbe non solo fatto sentire vulnerabile, ma pure mostrato come tale), per anni mal sopportò Roma e il suo mestiere, conobbe il tormento dell’arte, conobbe il vuoto e la noia, la solitudine, perse la sua Elsa, il suo grande amore.
Eppure, di tutto questo, si occupò poco. Sono rarissime le lettere in cui davvero va a fondo di tutto questo e se ne lamenta: le volte che lo fa, aggiunge “ti prego di non prendere sul serio queste mie lamentele: è sempre stato così”. Sapeva di dover convivere con quel male e sapeva di doverlo mettere da parte per restare lucido e occuparsi del lavoro e di Elsa. “Ecco tutto il denaro che c’è in casa, per regalo. Ci metto accanto il mio cuore, perché non ho altro. Il tuo Alberto”: su questo bigliettino non c’è una data ed è impossibile, quindi, collocarlo in una fase della loro relazione (che non fu una relazione, ma una vita).
Il denaro e il cuore: questo dà il marito, pensava Moravia. Il sinolo perfetto che fingiamo di rifiutare, convinti che la vera vita sia altrove. Il pacchetto dove non c’è spazio per le proprie lacrime: sono una distrazione.E chissà se dagli uomini che obbediranno a quell’orrendo spot che impone l’estroversione dei sentimenti come traguardo di civiltà, non potendo avere del denaro (ci offenderebbe, non è vero?) avremo un po’ del loro cuore, sempre che trovi del tempo per noi, preso come sarà dal soffrire per sé stesso e sbandierarlo.