Il 2016 sarebbe potuto passare alla storia come l’anno in cui gli americani avevano eletto il loro primo presidente donna, e sappiamo come è finita. Nessuno però si aspettava che il parlamento brasiliano deponesse Dilma Rousseff, né tantomeno che Park Geun-hye fosse costretta a chiedere al parlamento coreano di decidere sulla sua sorte, cosa avvenuta venerdì 9 dicembre. E infine, per limitarsi ai Paesi del G20, che dire di Cristina Fernandez de Kirchner (CFK), che sta vivendo l’ignominia delle indagini giudiziarie per appurare quanti dei milioni di dollari trovati nei conti correnti di famigliari e collaboratori siano suoi, accumulati negli anni passati alla Casa Rosada, prima come Primera Dama a fianco del marito Néstor e poi, da vedova, come Presidenta?
Certo il 2016 è anche l’anno che ha visto Theresa May entrare al 10 Downing Street e Angela Merkel lanciare la candidatura per riconfermarsi alla cancelleria che occupa dal 2007. Ma nondimeno viene spontaneo chiedersi se questa impressionante lista di fallimenti politici non sia in qualche maniera legata al genere. Vuoi perché a una donna in politica non si perdona niente, e invece in molti casi si manifesta una certa misoginia; vuoi perché magari le politiche sono meno attrezzate per resistere alle pressioni dell’attività di governo.
Intervistata ad aprile dal New York Times, Dilma aveva sostenuto che l’impechment di cui si stava discutendo aveva molto a che vedere con la sua condizione di donna, non solo la prima a dirigere il Brasile ma anche, quando era numero 2 del governo di Lula. La prima ad occupare un posto di tanta responsabilità in un Paese ancora abbastanza maschilista, in cui le donne sono 51% della popolazione, ma appena 10% del corpo parlamentare. Dilma ha sostenuto che i parlamentari e i media sbagliavano a considerarla fragile, rivendicando al contrario la sua forza, temprata dalle avversità della vita e della tenzone politica (le torture cui fu sottoposta dal regime militare nel 1970).
Tra le chicche scoperte invece da Peter Beinart dell’Atlantic alla convenzione repubblicana, ci sono invece spille con messaggi eloquenti come “Don’t be a pussy. Vote for trump”, “Trump 2016: finally someone with balls”, “Trump that bitch”, “Hillary sucks but not like Monica”, e “Life’s a bitch: don’t vote for one”. Altrettante testimonianze del livore con cui una parte, molto sostanziale, dell’elettorato americano ha reagito alla prima donna candidata alla massima carica nazionale. Senza dimenticare il trattamento che i tabloid hanno riservato a Melania Trump: il New York Post, in particolare, le ha dedicato due copertine, con altrettanti nudi del 1995 e titoli come “The Ogle Office” (“ogle” significa guardare con malizia) e “Menage a Trump”. Neppure CFK si è salvata dai commenti misogini, che come minimo la consideravano semplicemente inadatta a succedere al marito al comando dell’Argentina, fino agli estremi di accusarla di essere semplicemente una donna vanitosa e attenta alla moda e alla chirurgia estetica più che alla sostanza.
Viene spontaneo chiedersi se questa lista di fallimenti politici non sia in qualche maniera legata al genere. Vuoi perché a una donna in politica non si perdona niente, vuoi perché le politiche sono meno attrezzate per resistere alle pressioni dell’attività di governo
In ciascun caso, appare però chiaro che le leader – al di là di pregi e difetti individuali – hanno fatto soprattutto le spese del loro appartenere alla casta. E questo le distingue invece da Merkel e May (il cui guardaroba riceve anch’esso un’attenzione di cui non sono mai stati degni i gusti di cancellieri e premier).
Molto si è detto di come Hillary, al di là del genere, rappresentasse la quintessenza dell’establishment: studi in ciò che di meglio l’America può offrire (Wellesley College e Yale Law School), first lady per otto anni, una carriera politica strepitosa (senatore per New York, lei figlia del Midwest, e sessantasettesimo Segretario di Stato). Ma anche Dilma, che il potere ha iniziato ad assaporarlo solo a 55 anni, quando venne nominata ministro dell’Energia, non lo ha poi più abbandonato per i successivi 14 anni, da figura chiave del sistema petista. Finendo col compromettere la sua immagine pulita da tecnocrate, anche se non c’è nessuna prova tangibile di malversazione.
Park è figlia di Park Chung-hee, il generale che condusse la Corea nel 1961-79, gli anni del (primo) miracolo economico. Ma anche della dittatura e della Guerra fredda con il Nord comunista, i cui sicari uccisero la madre di Park (mentre il padre fu vittima di un putsch di palazzo). Una politica esperta che ora è accusata di aver praticato riti sciamanici e di essere manipolata da un’amica d’infanzia, figlia di una specie di guru a capo della Chiesa della Vita Eterna, che ne sfruttava poi il nome per estorcere contributi ai grandi conglomerati. Che poi il nome della Park, celibe e che in campagna elettorale sostenne di aver sposato la Patria, sia anche associato a una storia sordida di gigolo rende la vicenda ancora più piccante.
Tutte le leader sotto accusa – al di là di pregi e difetti individuali – hanno fatto soprattutto le spese del loro appartenere alla casta
Bisogna anche dire che in Argentina, Brasile e Corea del Sud magistratura, media e società civile hanno mostrato una straordinaria capacità di reagire alla mediocrità (e peggio) della classe politica, caratteristica che sembra accomunare maschi e femmine. In meno di un anno, Mauricio Macri ha già dimostrato grade determinazione nel migliorare non solo l’immagine dell’Argentina (che non a caso presiderà il G20 nel 2018), ma anche la coerenza della politica economica. Obiettivi che per il momento Michel Temer, attuale presidente del Brasile, sembra avere maggiore difficoltà a raggiungere e che sarà in cima delle preoccupazioni di chiunque arrivi alla Casa Blu di Seul (da cui tutti i predecessori di Park sono usciti accusati o sospettati di corruzione). Fa specie pensare come invece a Washington, capitale del mondo libero, si insiederà tra poche settimane un’amministrazione che trasuda conflitti d’interesse e non sembra preoccuparsi affatto dall’etica della responsabilità.