Una lingua sottosopra. È il risultato di duecento anni di colonizzazione, l’incontro con le popolazioni aborigene e, infine, il fatto che i parlanti originari fossero più abituati a parlare lo slang delle strade e delle prigioni anziché il linguaggio forbito di Oxbridge. Risultato? L’inglese australiano, il più strano del mondo.
Non solo si è allontanato dalla madrelingua modificando alcuni dettagli dell’accento e della pronuncia, come è accaduto con l’American English. Ha proprio assunto una vitalità propria, producendo fenomeni linguistici propri. Ad esempio, l’uso quasi normale delle parolacce, diventato quasi uno strumento di abbellimento, un segnale di affetto, che un modo per imprecare e insultare. Succede che “bastard” sia un dolce complimento, ma anche un’offesa: dipende dal tono e dal contesto.
La caratteristica più notevole dell’Australian English, però, è la maniacale ossessione per l’abbreviazione. Tutto è più corto, più breve, tagliato a metà. Le parole sono spezzate e alla fine si aggiunge una vocale (a, o, ie, y). In tutto, si contano circa 5.000 diminutivi. Più che un’abitudine: una mania. Mosquito diventa Mozzie, Afternoon diventa Arvo, Musician è Muso e Facebook è solo Facey. Perfino Monday si accorcia e diventa Mondy
Non è chiaro perché abbiano sviluppato questa caratteristica. Senza dubbio, ha influito la lingua di provenienza, abituata fare uso di formule abbreviate, allusive (come sempre accade in contesti criminali). Secondo alcuni va considerata anche la volontà di conformarsi con le lingue degli aborigeni australiani, che comprendono parole più brevi e terminanti in vocale. Infine, come ipotesi più fantasiosa, la necessità di tenere la bocca chiusa il più possibile: troppe mosche.
Come sia andata, il risultato è questo: un inglese leggerone, divertito e molto, ma molto sbrindellato: