Viva la FifaIl caso Emirates Stadium: i nuovi padroni del calcio non intaccano la tradizione

I Gunners sono stati costretti a lasciare il vecchio Highbury 10 anni fa. Da quel momento hanno aumentato il fatturato a oltre 400 milioni. Grazie ad un impianto moderno ma rispettosissimo della tradizione, è il secondo stadio al mondo per ricavi totali

«Scusi, quello lì è l’Orologio originale, di Highbury?».

Siamo nella pancia dell’Emirates Stadium, in una elegante sala chiamata Diamond Club, che sfocia direttamente sulla tribuna riservata ai pezzo grossi dell’Arsenal. Nelle orecchie, lo voce gentile e registrata di una guida ci sta accompagnando nel tour dell’impianto nel nord di Londra. All’ingresso del Club, campeggia una riproduzione del Clock, il grande orologio voluto dall’allenatore dell’Arsenal degli anni Venti e Trenta Herbert Chapman. Un’altra sta proprio sopra la curva dei tifosi dei Gunners, così come accadeva nel vecchio impianto di Highbury, dove non a caso il settore dei Gooners più accesi era chiamata The Clock End. A confermarci che quella che stiamo indicando dalla grande vetrata che affaccia sul campo non è il vero orologio è una guida che, sarà per un banale effetto di autosuggestione, somiglia incredibilmente ad Arsene Wenger, altro tecnico che come Chapman passerà alla storia del club.

«Vede, quello originale però è ancora qui. Quando uscirà dallo stadio vada pure fuori la Clock End. Lì troverà una statua di Chapman. Segua il suo sguardo: lì troverà il vero Clock».

(Alessandro Oliva/Linkiesta)

La voglia di correre fuori a controllare è fortissima. Se non fosse così tremendamente ricco di fascino tutto il resto del tour, ovvio. E per capire il fascino di questo stadio, che poggia come un’astronave da 60mila posti nel quartiere non troppo periferico di Ashburton Grove, a circa un quarto d’ora di Tube dalla centrale Leicester Square, bisogna riavvolgere il nastro della centenaria storia dell’Arsenal. Per arrivare appunto a Chapman, allenatore talmente moderno da imporre al calcio inglese, giusto per capirci, i numeri di maglia, il pallone a spicchi bianchi e neri per migliorarne la visibilità, le luci elettriche negli stadi per le gare in notturna, oltre che l’introduzione del bianco nei colori social dell’Arsenal: il rosso era molto di moda nelle squadre di football dell’epoca e bisognava distinguersi.

Ecco, il vecchio Herbert aveva questo: sapeva come far emergere quello che aveva per le mani. Oggi lo chiamerebbero marketing. E anche sui di fatto non vendeva nulla, il suo gioco e la sue squadre si distinguevano sempre dal resto del gruppo, marcavano il territorio, imponevano leggi, stravolgevano il mercato. Quando arrivò sulla panchina dei Gunners, a metà degli anni Venti, aveva già portato al successo in campionato ed Fa Cup l’Huddersfield Town. Ma un cambio di regole voluto dall’Ifab – il congresso che riunisce le federazioni calcistiche del Regno Unito – rischiava di rimescolare le carte in tavola. In sostanza, veniva modificata la regola del fuorigioco: d’ora in avanti, sarebbero bastati due uomini per decretare l’offside per la squadra avversaria, non più tre. Chapman non si fece fermare e anzi, fece la rivoluzione, introducendo man mano un nuovo schema di gioco che sarebbe passato alla storia come “Sistema”, per dare più equilibrio alla squadra ed evitare così il maggior numero di gol segnati, come effetto per il cambio della regola sul fuorigioco: si passò così dal 2-3-5 al 3-4-3, dal “Metodo” e dal lancio lungo al gioco palla a terra.

Non deve dunque stupire che Chapman sia considerato uno dei più grandi rivoluzionari del calcio. Aveva un’idea per tutto. Quando arrivò a Londra, l’Arsenal giocava già ad Highbury, impianto costruito nel 1913 nell’omonimo quartiere nord della capitale. Nel 1925 in tutta Europa spopolava l’Art deco: era quello lo stile con il quale la dirigenza del club aveva ristrutturato il piccolo stadio. Ed era quello lo stile del Clock che Chapman volle sopra una delle tribune, diventata ben presto la Clock End. Così come fu lui a volere che la fermata della metropolitana più vicina prendesse il nome di Arsenal, caso unico di squadra ad avere una stazione dedicata in tutta Europa.

Per capire il fascino di questo stadio, che poggia come un’astronave da 60mila posti nel quartiere non troppo periferico di Ashburton Grove, a circa un quarto d’ora di Tube dalla centrale Leicester Square, bisogna riavvolgere il nastro della centenaria storia dell’Arsenal. Per arrivare a Herbert Chapman, allenatore talmente moderno da imporre al calcio inglese, giusto per capirci, i numeri di maglia, il pallone a spicchi bianchi e neri per migliorarne la visibilità, le luci elettriche negli stadi per le gare in notturna

Ancora oggi, la fermata Arsenal è utilizzabile per raggiungere il nuovo Emirates (anche se ha già 10 anni di vita): basta percorrere qualche metro su Drayton Park e camminare sulla sopraelevata pedonale che passa su un tratto di ferrovia locale. Andando dall’altra parte invece , ancora più vicino l’uscita della Tube, c’è quel che rimane del vecchio Highbury: un complesso residenziale il cui giardino comune è stato ricavato dal campo di gioco, mentre l’ingresso dell’ex tribuna principale, costruito negli anni Trenta, è stato tenuto in vita. Da questa operazione residenziale, il club ha incassato circa 40 milioni di euro, che sono serviti per coprire parte delle enormi spese per realizzare il nuovo impianto, circa 500 milioni di euro. Il progetto è stato seguito per filo e per segno da Wenger, che come Chapman ha voluto dire la sua. Il risultato è un impianto moderno e tradizionale allo stesso tempo. A dimostrazione che la presenza di uno sponsor straniero come la Emirates, che ha acquisito i naming rights dell’impianto fino al 2021 per 120 milioni di euro e che investe in tutta Europa, non ha affatto contribuito a sporcare la storia dell’Arsenal, come molti tifosi temevano accadesse.

Rispetto ad altri impianti in giro per l’Europa, l’interno dell’Emirates è molto essenziale. Se con il tour entro negli spogliatoi, l’unica concessione vagamente sfarzosa è una parete a mosaico che riproduce la scritta bianca “Arsenal” su sfondo nero. Per il resto, nessun controsoffitto con in rilievo lo stemma del club, nessuna luce particolare e nessuna sedia ultramoderna che ospiti i valorosi glutei degli atleti: ad accogliere i giocatori c’è una enorme panca di legno che corre lungo i muri dello spogliatoio, così come di legno è la parete che fa da appendiabiti per le maglie dei giocatori; basta una gruccia e via. Niente schermi, solo una lavagna con pennarello, per spiegare le ultime cose ai ragazzi prima di andare in campo, al quale si accede da un semplice “tubo” telato in plastica. Qui si svela tutta la bellezza di un manto erboso praticamente perfetto. Sedendo su una delle due panchine riservate alle squadre, si può notare come la curvatura del campo sia perfettamente calibrata per convogliare l’eventuale pioggia, mentre una solerte guida – solo se interrogata – ci spiega che l’erba è solo al 3% artificiale e che il manto sul quale poggia è stato studiato per essere cambiato integralmente solo una volta ogni dieci anni. Passeggiando per il resto del tour, immancabili sono i riferimenti storici, da tutte le Fa Cup vinte alle prime pagine nella sala stampa: tra tutte, spicca quella del campionato vinto all’ultima giornata contro il Liverpool e raccontato un grande fan dei Gunners come Nick Hornby in “Febbre a Novanta”.

(Dati Deloitte/Football Money League 2017)

L’operazione-stadio, così come orchestrata dal club, funziona. In pochi anni, grazie all’Emirates, l’Arsenal ha potuto contare come ogni società moderna che si rispetti su un’enorme incremento di ricavi legati al macthday, cioè da chi frequenta lo stadio nei giorni di gara. Highbury d’altra parte era uno stadio indubbiamente ricco di fascino, un vero e proprio salottino dove si giocava a calcio, ma non prevedeva gli spazi come skybox o lounge, così come la ridotta capacità non permetteva di far leva su quel tipo di ricavi. Oggi l’Arsenal è un club che fattura 468 milioni di euro ed è il secondo al mondo per ricavi totali da stadio, dietro il Manchester United: parliamo di 133 milioni di euro, il 29% del fatturato netto. Cifre che fanno sembrare noccioline quelli spesi dagli arabi per i naming rights. La tradizione, se gestita bene, fa guadagnare.

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