Mario resisti. Mario sorreggici. Sono le preghiere laiche che quest’anno dovremo indirizzare al presidente della Bce Mario Draghi. L’inflazione cresce in Germania, non in Italia, e questo sta divendanto il Grande Problema con cui dovremo fare i conti quest’anno. Perché, se è vero che gli studi previsionali degli economisti vanno presi con le pinze, dopo tutti i granchi presi nel 2016, è anche vero che se tutte le frecce portano verso un punto, chiudere gli occhi non è possibile. Al punto X c’è il feticcio dell’aumento dei tassi di interesse da parte della Bce. Combinato con la fine del Qe, significherebbe per noi una cosa, soprattutto: un aumento del costo del debito pubblico a livelli esorbitanti.
Come si legge nello studio a più mani The World in 2017, presentato nei giorni scorsi da Nomisma (a cura del managing director Andrea Goldstein), sarà la “fine di un’anestesia” che va avanti dall’inizio del Qe varato dalla Bce. Noi, fa notare l’autore dell’intervento sull’Italia, Francesco Giavazzi, continueremo a far finta di nulla fino alla prossima estate. Poi, quando sarà chiaro che il Qe sarà destinato davvero a finire apriremo gli occhi. «Potrebbe essere un risveglio brusco» e se ci dovesse essere instabilità sui mercati, risponderemo «nell’unico modo possibile quando si è presi di sorpresa: alzando le tasse, come abbiamo fatto nel 2011». Per capire gli effetti possibili, basta pensare a quel che accadde quell’anno, quando il Pil si contrasse di due punti percentuali.
Ma perché essere così preoccupati e così pessimisti? In primo luogo perché il nostro debito pubblico è rimasto enorme, anche a causa di una spending review che è stata epidermica, sia da parte dell’ultimo governo che dei due precedenti (Monti e Letta). Nonostante il debito sia oltre il 132% del Pil, da tre anni il costo del nostro debito – cioè quante tasse dobbiamo pagare per permettere allo Stato di pagare gli interessi sui titoli emessi – è sceso a solo mezzo punto di Pil, cioè 8 miliardi di euro all’anno. Per capire quanto sia grande questo privilegio, basti pensare – come spiega l’analisi di Nomisma – che per ogni incremento di un punto percentuale dei tassi di interesse della Bce, il surplus primario di bilancio necessario per mantenere stabile il rapporto debito/Pil sale (dopo un po’ di anni, in considerazione di una maturità media dei titoli di Stato di sette anni) di 1,3 punti percentuali. Vale a dire circa 20 miliardi di euro, ossia una cifra pari all’ammontare del fondo stanziato dal governo per risolvere la crisi bancaria di Mps e delle altre banche (le due venete su tutte) che avranno difficoltà a trovare liquidità sul mercato. Mette in guardia Carlo Cottarelli, un altro che di come va la spending review in Italia ne sa qualcosa, sempre per Nomisma: «È il 120 (per cento, ossia il rapporto debito/Pil) il nuovo 60? Non così in fretta». Perché «è chiaro che è improbabile che la situazione attuale duri per sempre. La liquidità creata negli ultimi otto anni dovrà essere tirata su a un certo punto, richiedendo che le banche centrali vendano titoli di Stato. Gli interessi dovranno salire e infatti hanno già cominciato a farlo negli Stati Uniti».
Continueremo a far finta di nulla fino alla prossima estate. Poi, quando sarà chiaro che il Qe sarà destinato davvero a finire apriremo gli occhi. Potrebbe essere un risveglio brusco
Perché questo dovrebbe accadere anche in Europa? Perché i segnali sul rialzo dell’inflazione stanno diventando sempre più forti. «L’inflazione è tornata!», titola in uno studio Standard & Poors, che a sua volta negli scorsi giorni si è esercitata in previsioni sul 2017 dell’Italia. L’anno appena iniziato, si legge, è destinato segnare il ritorno dell’inflazione in Europa, dove già a dicembre i prezzi (Consumer Price Index, Cpi) sono saliti dell’1,1 per cento. Non una grande cifra in assoluto, ma il livello più alto dal 2013. Tra il 2014 e il 2016 l’eurozona si era fermata a valori tra lo 0 e lo 0,4 per cento. Nei prossimi mesi, prevede S&P, si muoverà più velocemente e alla fine del primo trimestre raggiungerà l’1,5 per cento, per poi stabilizzarsi e stare poco sopra l’1 per cento. Di questa crescita, per ora, il responsabile principale è stato il petrolio, i cui valori sono attualmente pari a +60% rispetto al gennaio 2016 (se si considerano i valori in euro; la cifra sale al +85% per la sterlina). «È l’equivalente di un mini-shock sul petrolio, derivante dall’ultima sorpresa del soprendente 2016, l’accordo dei Paesi Opec sulla produzione di petrolio», ha spiegato il capo economista Emea di S&P Global Ratings, Jean-Michel Six.
L’altra parte del discorso riguarda che quel che sta accadendo negli Stati Uniti. Dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza, i mercati, a sorpresa (chiedere a George Soros) hanno creduto a un rafforzamento dell’economia americana – grazie a uno stimolo aggiuntivo calcolato in 200 miliardi di dollari, tra tagli alle tasse e spesa per infrastrutture – e quindi a un’accelerazione delle mosse della Fed in senso restrittivo. S&P prevede che i rialzi dei tassi Usa da parte di Janet Yellen saranno due nel 2017 e tre 2018. Questo ha già portato a un rafforzamento del dollaro sull’euro e a un aumento dei tassi dei bond americani a dieci anni.
«Non c’è dubbio: oggi l’Italia è il Paese che più sarebbe colpito da un aumento dei tassi»
Tutto questo si riverberà in un aumento dei tassi anche in Europa? Qualcuno di certo lo vorrà, ossia la Germania. Le stime di S&P sull’inflazione tedesca nel 2017 sono dell’1,7 per cento e guardando i dati più recenti, nota l’agenzia di rating, già si nota un segnale importante: il Paese guidato da Angela Merkel è l’unico in cui la crescita dell’inflazione sembra andare oltre la componente energetica e riguardare anche alimentare e servizi. In altre parole, è il sintomo di una ripresa dei consumi. Nonostante la Germania abbia beneficiato dei tassi bassi degli ultimi anni, potrebbe essere arrivato il momento della richiesta di un aumento dei tassi, per tutelare i consumatori e la redditività della banche tedesche.
C’è però un problema: la politica monetaria deve riguardare 19 Paesi e non uno solo. Per noi, però, il guaio è che la crescita del Pil e della domanda dei consumatori è molto più bassa che negli altri Paesi dell’eurozona. «L’Italia ha una situazione unica, e in negativo», ha detto senza giri di parole Jean-Michel Six. «Ci sono le preoccupazioni per i crediti deteriorati nelle banche e per l’incertezza politica, sulla possibilità di nuove elezioni e sull’impatto dei nuovi referendum. Anche i miglioramenti sul fronte del lavoro sono rallentati. Non c’è dubbio: oggi l’Italia è il Paese che più sarebbe colpito da un aumento dei tassi». Inevitabile che gli interessi divergano. «Ci aspettiamo una forte tensione dell’eurozona, tra il Nord e il Sud, e questo disturberà i mercati – dice Six -. Molto dipenderà dalle comunicazioni della Bce. A nostro avviso Draghi è il più grande comunicatore al mondo», ma è anche vero che il suo mandato scadrà nel 2019. Come andrà finire? Se dipendesse dal capo economista di S&P non ci dovrebbero essere dubbi: «I tempi non sono maturi, non c’è una vera ripresa nell’eurozona e l’inflazione al netto dell’energia è troppo bassa. Il Qe dovrebbe andare verso un graduale “tapering” (riduzione degli acquisti) solo in presenza di segnali di ripresa». La conclusione: la politica monetaria dovrebbe rimanere accomodante finché la ripresa non sia robusta. Almeno non prima del 2018. Sembra un traguardo lontano, ma è dietro l’angolo.