Il primo fu Bob Kennedy, il fratello di JFK che, quando si installò nell’ufficio del Dipartimento di Giustizia decise di ridecorare le pareti con i disegni dei suoi bambini. Di sicuro era un segno di affetto paterno: un genitore lontano e distratto dalla politica che cercava una via di contatto con i membri della famiglia. Ma ci si può leggere anche altro, come fa questo interessante video di Delphine Burrus sponsorizzato da The School of Life, che considera in crescita il fenomeno degli adulti che conservano i disegni dei bambini. Forse un desiderio di innocenza?
La tesi, piuttosto semplicistica, ha comunque un suo fascino: il mondo è sempre più complesso, richiede attenzione costante, concede poco spazio agli errori (se non proprio nessuno spazio) e obbliga le persone alla massima precisione, la massima accuratezza. Tradotto in termini artistici, è uno stile di vita che obbliga a una visione naturalista della realtà, dove tutto ciò che è viene riprodotto e vissuto per come è. Lascia poco spazio all’interpretazione e alla rielaborazione dei fatti.
Il disegno del bambino, invece, che è approssimativo e simbolico per definizione, è uno spazio di libertà inaspettato. Sono tratti che non si curano affatto dell’osservazione, ma mirano alla sostanza. Niente forma, solo concetto. A differenza delle espressioni artistiche del ’900, non si tratta di una deliberata scelta artistica, ma dell’espressione più immediata della personalità. I bambini disegnano come vedono, o meglio: come pensano. E la loro visione delle cose è lì, pura e (in)educata, come sono loro.
Insomma, nell’ingenuità dei tratti gli adulti logorati dalla vita contemporanea vedrebbero non solo un mondo a parte, diverso e consolante, ma anche una nostalgia per i loro veri se stessi. Perduti, o forse nascosti come l’undicesimo imam degli sciiti: in attesa di tempi migliori.