Ci sono due modi di vedere Paterson, l’ultimo film del regista americano Jim Jarmusch. Il primo è quello di chi gli va incontro, quello di chi, dal momento in cui appoggia le chiappe sulla poltroncina, apre un taccuino immaginario nella testa e, per tutta la durata del film, prende nota di ogni cosa. Il suo obiettivo è capire cosa diavolo gli sta passando davanti e, per farlo, cerca i puntini da unire, cerca il pattern o addirittura il frattale che gli spieghi, in piccolo, quello a cui sta assistendo, in grande, sullo schermo.
Il secondo è quello che, al contrario, lo aspetta. È il modo di chi, non appena appoggia le sue di chiappe sulla sua di poltroncina, chiude il taccuino che ha aperto durante la giornata in testa, spalanca gli occhi e aspetta. Aspetta che la corrente narrativa architettata dal regista sia abbastanza forte da potercisi abbandonare; spera che il film su cui ha investito i suoi euro lo prenda per mano e lo trascini via, almeno per un po’, senza pensare. Non è in cerca nessun puntino. Non per forza almeno.
Guardando Paterson gli occhi del primo sono veloci e attenti, si posano su ogni dettaglio, cercano di ricordarsi ogni frase, ogni inquadratura e da ogni cosa cercano di ricostruire un tragitto, una strada, anche solo per capire in che direzione Jarmusch lo sta portando. Gli occhi del secondo, invece, sono più lenti e dopo la prima mezz’ora perdono pian piano tenuta, cominciano a fare fatica, a metterci un secondo in più per aprirsi e ad accarezzare il sonno. Anche loro notano i dettagli, ma a differenza degli occhi del critico, quelli dello spettatore non sanno che farsene dei puntini: vogliono la soluzione, non un indovinello.
È agli occhi del primo, non certo a quelli del secondo, che Paterson sembrerà un capolavoro. Sono quelli del primo, infatti, gli unici che capiranno che la strada lungo cui ci accompagna Jarmusch è semplicemente quella della poesia, l’unica strada che non risponde alle normali regole del mondo. Nel mondo della poesia, infatti, come a Paterson, tutto ciò che esiste esiste per accumulo. Nella poesia i suoni esistono grazie alla loro ricorsività, le idee grazie alla loro giustapposizione e le cose prendono forma — come al cinema, d’altronde — grazie alla moltiplicazione. Esattamente come nella vita di Paterson, nella quale esiste solo ciò che si ripete: le strade del 23, sempre le stesse; la birra alla fine della passeggiata con il cane Marvin, sempre la solita, sempre nello stesso posto; l’amore tenero delle sveglie all’alba, sempre simili a se stesse; persino l’arte, che vive nelle mille versioni ripetitive delle attività, rigorosamente in bianco e nero, di Laura, moglie di Paterson.
È questo il centro del labirinto: è dalla ripetizione sempre uguale ma sempre leggermente diversa che può nascere, e nasce, la poesia. Esattamente come è in quel recinto di abitudini semplici e noia che è la vita semplice dell’autista Paterson e della moglie Laura, scandita giorno per giorno dalle stesse azioni, dall’andare a lavoro al sistemare la casella della posta, che sola può nascere la felicità.
Insomma, è un piccolo capolavoro questo ultimo di Jarmusch. Esattamente come la poesia che vuole rappresentare è lento, ripetitivo, discreto, sussurrato, ma, soprattutto, chiede qualcosa di decisivo agli occhi di chi lo guarda, ovvero la predisposizione all’attenzione, la voglia di cercare, nella ripetitività di una vita noiosa e ai margini del mondo come nel flusso di parole semplici e di suoni quotidiani che forma le poesie di Paterson, l’anello che non tiene, il minuscolo scarto che dà il senso a tutto il resto.
E questa è la sua forza, ma è anche il suo peggior difetto. È per questo che, in tutta sincerità, chi non ha quella curiosità, chi non è pronto a quello sforzo e chi non ha voglia di trovare il centro del labirinto, semplicemente, resti a casa, oppure si prepari, al cinema lo aspetta una sonora dormita.