Occident Ex-PressTute blu, perché il sindacato ha “tradito” i metalmeccanici

Metalmeccanici, figure mitologiche, eppure sono un esercito da 1,5 milioni e fanno il 7,4% del Pil. Lasciati soli dai sindacati, perché? Tante risposte: la “Marcia dei 40mila” a Torino, zero democrazia nei referendum e la Cgil troppo vicina agli eredi del Pci. Ma c'è chi parla solo di “tradimento”

Referendum sballati, contratti di lavoro che solo una ventina di anni fa avrebbero portato in piazza centinaia di migliaia di persone e sindacati che battono la ritirata dai loro obiettivi storici spacciandola tuttavia per una grande vittoria. È scontro vero, dal sapore antico ma in realtà attuale e concreto, quello che si è consumato negli ultimi mesi sul contratto nazionale dei metalmeccanici. I metalmeccanici, figure quasi mitologiche nel dibattito quotidiano, che invece esistono, sono numerosi, vivono e lavorano (o non lavorano). Contrariamente alla leggenda che li vorrebbe in via d’estinzione sono quasi un milione e 600mila in Italia, e ancora nel 2016 pesano per il 7,4 per cento del Pil e il 5,9 per cento degli occupati. Eppure sono quei lavoratori che, con un’espressione molto in voga negli ultimi tempi, un po’ dappertutto in Occidente, vengono definiti “gli sconfitti della globalizzazione”. Lo sono veramente?

Il metalmeccanico, la tuta blu, una figura quasi mitologica nel mondo del lavoro, “gli sconfitti della globalizzazione”. Invece esistono ma non stanno alla catena di montaggio: sono 1 milione e mezzo fra informatici, impiegati, facchini, tipografi e operai. Il 7,4 per cento del Pil e il 5,9 per cento degli occupati

Per i sindacalisti “pragmatici” – come si autodefiniscono – che non rifuggono dai compromessi non sono loro gli sconfitti. Anzi, le segreterie di Cgil, Cisl e Uil si mostrano entusiaste degli ultimi risultati raggiunti. Gli stessi Maurizio Landini e Marco Bentivogli della Fim-Cisl hanno parlato di «rinnovata unità sindacale che guarda al futuro». Il riferimento è all’intesa 2016-2019 con Federmeccanica e Assistal – la prima firma unitaria dopo i rinnovi senza le tute blu della Cgil.

Dall’altra ci sono i “duri e puri” del salario e della democrazia sindacale, che accusano i sindacati confederati di complicità con le imprese. Una complicità mascherata da “responsabilità”. Come Giorgio Cremaschi, storico dirigente Fiom che ha restituito la tessera del sindacato dopo 44 anni, e parla di «tradimento del gruppo dirigente della Fiom, un contratto che è l’abiura totale di quanto fatto in trent’anni».

«Questo contratto è l’abiura totale di quanto fatto dalla Fiom in trent’anni» dice Giorgio Cremaschi, ma nelle segreterie di Cgil-Cisl-Uil, invece, si festeggia

I primi rivendicano una vittoria: l’aumento in busta di 92,68 euro. Una bella cifra in tempi di crisi, parrebbe. Rivendicano anche di aver sottoposto quella decisione al giudizio dei lavoratori, con il referendum sul contratto nazionale svolto poi a dicembre nelle fabbriche che ha dato al “sì” all’accordo una vittoria schiacciante: 80,11 per cento dei consensi. Un plebiscito da manuale, insomma. Ma non è tutto oro quello che luccica.

Contratto nazionale, la prima firma unitaria dopo anni senza la tute blu della Cgil. Fiom-Fim-Uilm rivendicano una vittoria: aumenti del salario e il referendum fra i lavoratori che gli ha dato ragione. Ma le cifre non tornano e non è tutto oro quello che luccica

Per cominciare, i numeri del referendum lasciano perplessi: la Fiom ha scritto nei propri comunicati di 5.986 aziende interessate per un totale di 678.328 dipendenti. A votare sono stati in 350mila e i favorevoli al nuovo contratto 276.627, con annessa vittoria schiacciante per la segreteria. Quei numeri però non tornano nemmeno a consultare le fonti ufficiali. Come Federmeccanica – la Federazione dell’Industria Metalmeccanica – che a Linkiesta parla di 15mila aziende interessate, non 5mila, il triplo rispetto al dato comunicato dalla sigla di Landini.

La cifra dei lavoratori, a sua volta, non torna. Sono quasi 1 milione e 600mila gli addetti dell’industria di settore. Sparsi fra il triangolo industriale Torino-Milano-Genova, sotto questo profilo la Rust Belt d’Italia con gli operai di settore in contrazione da decenni, fino al Veneto e alle regioni appenniniche – Marche, Toscana, Emilia – mentre il Mezzogiorno offre il deserto produttivo. Un milione e 600mila, certo, ma non solo tute blu, s’intende. Lo stereotipo è stato in larga parte sostituito dal proprio omologo serbo, romeno, cinese, anche americano. Ne fanno invece parte tipografi, informatici, facchini della logistica, impiegati, quadri e una manciata di altre mansioni. Sgrossiamo questo milione e mezzo dalle imprese fino a 20 dipendenti, che fanno riferimento al contratto delle piccole imprese oppure a nessun contratto.

Il referendum nelle fabbriche ha dato l’80 per cento dei “sì” all’accordo, secondo la Fiom. Eppure all’appello mancano 10mila fabbriche-aziende e 600mila lavoratori che non hanno votato. Astensionismo? Difficile quando si parla di stipendio. I dubbi si nascono in come funziona la democrazia sindacale

Togliamo pure i lavoratori Fiat, dopo che nel 2010, con l’affaire Pomigliano, Marchionne scelse la “linea dura” uscendo da Federmeccanica-Confindustria. Il numero che rimane è comunque alto. Più alto di quanto comunicato dalla Fiom: 1 milione di lavoratori. E 650mila di loro non hanno votato o potuto votare. Alla luce di questo dato, i 276.627 “sì” all’accordo votati nelle fabbriche offrono ben più di un fianco alle critiche sulla rappresentanza. Si può parlare di astensionismo volontario per i due terzi degli interessati? Difficile quando si tratta del proprio stipendio, della pensione, del welfare.

Qui, per capire, bisogna entrare nei gangli di come funziona un referendum sindacale. Che nulla ha a che vedere con quelli politici. Non c’è una data singola, un luogo fisico e un’urna dove recarsi in massa e infilare la propria scheda, votare “sì” o “no”. Ci sono al contrario dei delegati che passano (dovrebbero passare) in ogni ufficio, in ogni stabilimento, e chiedere se tutti si è d’accordo. A quel punto prendono nota. Può capitare di dimenticarsi di qualche luogo. A giudicare dai numeri se ne sono dimenticati parecchi.

«Il referendum non è dei metalmeccanici tutti ma della struttura organizzata, la stessa che prima ha firmato il contratto. Non si può lasciare all’oste il giudizio sul suo vino»


Giorgio Cremaschi

«Il referendum non è dei metalmeccanici, come si vuole far credere» spiega Cremaschi, che di queste consultazioni ne ha viste parecchie, sin dalla prima nel 1986 quando si raggiunse la cifra monstre di 950mila votanti, un unicum nella storia del sindacato, «il referendum è della struttura organizzata, la stessa che prima ha firmato il contratto. Non si può lasciare all’oste il giudizio sul suo vino». Esiste dunque un problema di democrazia interna, dello scollamento fra segreterie e base. Un problema che, se in questa epoca è proprio dei partiti politici tradizionali, viene esasperato nei sindacati dove la politica è ancora più reale e concreta che non a Montecitorio o Palazzo Madama. Una legge sulla rappresentanza aiuterebbe ma il Paese ha smesso di discuterne anni fa, preso da problemi più impellenti o considerati tali.

Il contratto va letto bene: i 92 euro di aumento lordo non sono soldi veri, da spendere a fine mese. Sono “flexible benefits”, fondi integratavi, ore di formazione e buoni-spesa, come quelli per la benzina che Marchionne dava a Pomigliano al posto degli aumenti

Fin qui per fermarsi alla forma. Poi c’è la sostanza. Perché quel famoso aumento di 92,68 euro lordi, che a tanti potrebbe far invidia in questa fase storica, è solo sulla carta. Anch’esso va sgrossato. Tante voci non finiscono nelle tasche dei dipendenti e a fine mese non aiutano quando si è in cassa al supermercato: l’adeguamento Ipca – Indice dei prezzi al consumo, e depurato dell’inflazione “energetica” – varrà a conti fatti 51 euro lordi sul triennio. C’è già chi si chiede cosa accadrebbe con un rialzo alle pompe di benzina, anche solo un aumento per via fiscale tramite accise e slegato dai prezzi delle materie prime, gas e greggio. O cosa accadrebbe se quell’aumento facesse sforare dalla fascia di reddito per accedere agli 80 euro di Renzi.

Il resto dei soldi non sono denaro contante ma i cosiddetti “flexible benefits”, prestazioni integrative e ore di formazione. In sintesi: per descrivere questo contratto bisogna immaginarsi un baratto fra pezzi di salario-stipendio e qualcosa d’altro, che salario non è: 450 euro divisi su tre anni in buoni-spesa (le cui modalità saranno decise azienda per azienda). Un’idea, questa, calcata proprio sul modello del transfuga da Confindustria, Sergio Marchionne, che in Fiat dava buoni benzina al posto degli aumenti salariali. Altri 156 euro all’anno a dipendente servono per l’assistenza sanitaria integrativa, per coprire ticket e alcune cure mediche proprie o dei familiari, da versare al Fondo Metasalute. La cui governance è gestita direttamente da dirigenti delle imprese e dei sindacati assieme e con questa mossa vedrà moltiplicarsi i propri iscritti “spontanei”. Il fondo sanitario gestito in coabitazione ha fatto gridare al “consociativismo” fra sindacato e impresa, una delle malattie nazionali che ha fatto la sfortuna di molti e la fortuna di pochi.

Diventa necessaria l’assistenza sanitaria integrativa grazie al fondo Metasalute, la cui governance è decisa ai piani alti dei sindacati e delle imprese. Il buon vecchio consociativismo

Poi ci sono le parole, perché i contratti di quello sono fatti. Parole che cambiano e altre che scompaiono cancellate da un tratto di penna. Due esempi. Il primo: i cosiddetti sabati di flessibilità, introdotti la prima volta a partire dal 1997-98. Tradotto, si lavora al sabato, su turni, niente pagamento di straordinari e le ore in eccesso vengono recuperate durante i giorni feriali, al mercoledì per esempio. Alle aziende piaceva molto, ai lavoratori meno, come da normale gioco delle parti. Il sindacato li accettò con una clausola: il potere di veto su come e quando realizzare turni e riposi spetta al consiglio di fabbrica. Una piccola garanzia che è durata per cinque contratti consecutivi prima di sparire lo scorso novembre.

Il secondo esempio può avere un titolo da romanzo: il mistero dell’avverbio “anche”. Nel 1994 si introduceva per la prima volta il “premio aziendale” o premio di risultato. La Confindustria lo voleva tutto variabile, legato a bilanci e performance. La Fiom, l’ala più intransigente almeno, chiedeva una quota fissa e una variabile. Si decise tutto in una notte di luglio. Seduti attorno a un tavolo c’erano Claudio Sabbatini, allora segretario nazionale, colui che materialmente appose la firma, Susanna Camusso, Cesare Damiano – futuro Rifondazione e ministro del Lavoro con il Prodi-bis – e lo stesso Cremaschi, in rappresentanza del Piemonte. Inutile spiegare il peso specifico di quella regione. Si strappò alla fine una sola frase. Questa: “Il premio di risultato è anche variabile”. Con un solo avverbio la Fiom per vent’anni ha fatto vertenze, proteste, scioperi, udienze nei tribunali civili. Il pane quotidiano di un sindacato, insomma. Quell’avverbio è stato cancellato nel 2016.

Parole che spariscono nel nuovo contratto come il consiglio di fabbrica per decidere dei “sabati di flessibilità” o il premio aziendale a fine anno che era “anche variabile”, cioè legato ai bilanci, e ora diventa solo variabile

Sono questi e altri elementi che fanno gridare Cremaschi al tradimento: «Non posso nemmeno dire che la Fim e Uilm siano traditori nel senso tecnico del termine, perché queste cose le avevano già firmate in Fiat. Il mio ex gruppo dirigente invece è venuto meno a trent’anni di storia». Ma secondo lui l’aspetto più grave è un altro: «Se i rapporti di forza ti obbligano a firmare un pessimo contratto, fallo. Ma devi ammetterlo, essere sincero e parlare chiaro. Devi dire: «Samo stati sconfitti». Ce l’ha con Landini, inutile nascondersi dietro a un dito. Sebbene esistano problemi che nemmeno con la migliore buona volontà e fedeltà alla causa si possano risolvere. Come ben spiegato da una frase di Bentivogli della Fim rilasciata a Internazionale: «Certo che è un compromesso. La trattativa non partiva da zero, questa volta, ma da meno 73». Erano 73 infatti gli euro che inizialmente Federmeccanica voleva indietro da ogni singolo lavoratore, perché le previsioni d’inflazione nel vecchio contratto 2012 si erano rivelate troppo elevate.

«Certo che è un compromesso. La trattativa non partiva da zero, questa volta, ma da meno 73» dice Marco Bentivogli della Fim-Cisl. Perché 73 erano gli euro che Federmeccanica voleva indietro dai lavoratori a inizio trattativa

C’è anche chi ritiene inadeguata la parola “tradimento”, anche a sinistra. «Capisco che certe categorie siano usate per la battaglia politica» spiega Stefano Azzarà, storico e filosofo marxista dell’Università di Urbino, «ma le spiegazioni moralistiche non aiutano a cogliere il nocciolo della questione, che è tutto politico ed è legato alle dinamiche del conflitto politico-sociale in una determinata fase».

Non di semplice “tradimento” si tratta, dunque, ma delle conseguenze di una sconfitta storica delle classi subalterne e in particolare della classe operaia. Una sconfitta che dura da diversi decenni e che a voler trovare una data inizia il 14 ottobre 1980, con la “Marcia dei 40mila”, quando quadri e impiegati Fiat si ribellano ai picchetti che da oltre un mese impediscono l’ingresso in fabbrica. Una manifestazione in cui i “colletti bianchi” sfilano contro gli operai con tecniche della lotta sindacale, come il corteo-serpentone per le strade di Torino. Scene mai viste che se oggi possono sembrare poca cosa all’epoca rappresentarono uno shock. Fu solo l’inizio. Perché per Azzarà le sconfitte non avvengono mai solo su un contratto o su una manciata di soldi in più a fine mese in busta. Le sconfitte sono culturali e ideologiche. Che portano il sindacato a una sorta di sindrome di Stoccolma dove l’unico obiettivo diventa «la riduzione del danno» come la definisce. «Può essere comprensibile in vista di una controffensiva immediata. Diventa controproducente se è la tua unica strategia nel corso di una fase di ritirata di lungo periodo».

«Non parliamo di tradimento sindacale, le spiegazioni moralistiche non aiutano a capire. Ci sono state sconfitte politiche e culturali che hanno portato i sindacati a ragionare solo in termini di riduzione del danno»

Ultima causa, non per importanza, è il nesso fra sindacato e partito. Che fra Cgil e Pci assumeva toni di fratellanza quasi incestuosa e tale è rimasto anche dopo il crollo del Muro di Berlino e la tempesta di Tangentopoli, attraversata indenne, o quasi, dalla galassia post-comunista italiana. Proprio nella fase in cui quella galassia si preparava a governare, non più solo a livello locale, e nel farlo preparava il terreno per “svolte blairiane” o “riformiste”. Un legame, quello fra sindacato e partito(i), che c’è ancora oggi e si vede nei nomi e nelle idee. Nei nomi perché nemmeno si contano i dirigenti sindacali diventati poi politici o componenti delle segreterie di partito: i Damiano, gli Epifani, i Cofferati, solo per fermarsi ai volti più noti, divenuti ministri, europarlamentari, sindaci di città come Bologna. E anche nelle idee, perché è difficile tagliare un cordone ombelicale con la propria casa madre. Il professore di Urbino usa un’espressione che rende bene l’idea: «Il sindacato è storicamente così legato al Partito che non può smentire con la sinistra quello che fa con la destra».

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