Il rischio valanghe sull’Appennino, per anni, è stato sottovalutato. Basse altitudini dove non si accumula neve, condizini climatiche diverse dalla cinta Alpina – questo si pensava. In particolare nella testa di chi praticava sport sciistici in montagna. Sbagliando. Lo ha scritto a chiare lettere la guida alpina Pietro Barigazzi definendo questo “un falso mito”. Lo ha fatto dalle colonne della rivista Ecoscienza – testata di informazione ambientale nata in seno ad Arpa Emilia-Romagna. Nel secondo numero del 2016 si legge che “La realtà è davanti agli occhi di tutti, grazie anche all’amplificazione dei media in caso di incidente: le valanghe esistono sull’Appennino, essendo presenti su quelle montagne pendii con inclinazioni superiori ai 26 gradi. Il fatto che le condizioni climatiche siano diverse rispetto alle Alpi e che le condizioni di pericolo rimangano per breve tempo ha contribuito a creare il falso mito”. Barigazzi aggiunge che queste condizioni di pericolo sono sempre esistite ma molte delle testimonianze di incidenti avvenuti negli anni ’70 e ’80 si sono perse. Un’epoca in cui si tendeva a non documentare. Oggi grazie all’attrezzattura e alla tecnologia di cui sono muniti gli istruttori del Cai o gli addetti agli impianti sciistici, tutto è più facile. Almeno da ricordare.
“La realtà è davanti agli occhi di tutti: le valanghe esistono anche sull’Appennino, su quelle montagne ci sono pendenze da 26 gradi” (quote) Pietro Barigazzi, guida alpina rivista Ecoscienza 2016
Certo, la slavina che giovedì ha coperto l’Hotel Rigopiano tra le montagne del Parco Nazionale del Gran Sasso, facendo almeno 5 morti, è stata causata con molta probabilità dalle violente scosse del sisma che l’hanno preceduta. Ma rimangono dei problemi oggettivi e non solo nella percezione che hanno sciatori e turisti di questi rischi. Anche in quella degli addetti ai lavori. Come AINEVA – Associazione Interregionale Nevi e Valanghe – che in suo vecchio report ha raccolto i dati delle slavine fra il 1986 e il 2001: 300 morti in quel quindicennio, il 95 per cento delle calamità si sarebbero verificati sulle Alpi e solo 14 valanghe avrebbero colpito in Appennino. Ma c’è un almeno un problema: AINEVA non ha degli uffici di elaborazione dati basati in centro Italia e nel Mezzogiorno, come si legge chiaramente dal loro sito. E anche se si chiama Associazione Interregionale sono coinvolte al suo interno solo una manciata di realtà ed enti locali fra Arpa, uffici di previsione e assessorati alle opere pubbliche. Nello specifico quelli delle Province di Trento e Bolzano, la Regione Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto e Friuli. Unico rappresentante per il centro Italia sono le Marche. Mentre per il sud, nessuno. Ed è chiaro che il monitoraggio sull’intero territorio nazionale ne possa risentire, ricadendo interamente sulle spalle di “Nevemont”, il sistema di monitoraggio di Corpo forestale e Protezione Civile.
La valanga che ha travolto l’albergo sul Gran Sasso è stata causata dalle scosse del sisma. Ma c’è comunque un problema: l’Associazione Interregionale Nevi e Valanghe (AINEVA) ha uffici solo al nord, lungo l’arco alpino. Uno nelle Marche e zero nel Mezzogiorno
Oltre le valanghe e le slavine, che in queste ore hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sulle operazioni di soccorso sul Gran Sasso, c’è poi un problema che oltrepassa i confini abruzzesi: si chiama rischio idrogeologico. L’Italia continua a dimenticarlo ma è questa una delle piaghe della penisola. Non lo scopriamo certo oggi. Lo aveva già detto l’Ispra poco più di un anno fa: 7145 comuni, sopratutto piccole località, dove abitano oltre 7 milioni di italiani sono a rischio alluvioni e frane. In Campania, nell’alta Toscana, Liguria e Piemonte, sono queste le regioni «dove a livello storico osserviamo sia la maggiore incidenza che ci viene mostrata alle mappe di sintesi dell’Ispra e del Cnr di Perugia, sia il livello più alto di vittime» spiega il geologo Marco Pizziolo del Servizio Geologico e Sismico dei Suoli di Regione Emilia-Romagna. E anche nella “sua” Emilia il numero di frane è elevato ma dal comportamento lento e che fanno meno morti: «Ricordo un caso di deragliamento di un treno nel 1978, il direttissimo Bologna-Firenze, proprio nei pressi del capoluogo, ma in Emilia in genere questi fenomeni non provocano vittime».
Alluvioni in Piemonte e Liguria dove scendono 700 litri d’acqua al metro quadro in meno di una settimana; frane in Campania e nell’Alta Toscana; “bombe d’acqua” a Olbia e Messina. L’Italia in balia del suo dissesto idrogeologico
E ancora: le alluvioni in Liguria o in Piemonte; le drammatiche sventure siciliane guidate dal caso di Messina, nel 2009, per chi se lo ricorda. Calamità che abbiamo imparato a conoscere, come le alluvioni che lo scorso autunno si sono abbattute sul nord-ovest quando sono scesi a terra 700 litri d’acqua per metro quadro in sei giorni. La quantitò che dovrebbe scendere in sei mesi, secondo le statistiche. Precipitazioni che a loro volta provocano ulteriore dissesto al terreno. «Sono quelle che chiamiamo bombe d’acqua e colpiscono spesso in collina ma anche al mare, caricate dai violenti temporali che si abbattono sulla costa. Più di un caso in Sardegna, per esempio, vicino Olbia» prosegue il geologo. “Bombe d’acqua” improvvise che creano un mix letale fra velocità dell’evento meteo e la rapidità della frana che scende verso il basso – spesso causata proprio dalle intense precipitazioni.