Il termine industria 4.0 si riferisce a una combinazione di numerose innovazioni nell’ambito della tecnologia digitale che stanno raggiungendo la maturità evolutiva e che confluiscono nella potenziale trasformazione dei settori energetici e manufatturiero.
Tra le tecnologie che fanno parte di questo ecosistema possiamo includere robotica avanzata, intelligenza artificiale, sensori evoluti, cloud computing, Internet delle cose, acquisizione e analisi dei dati, fabbricazione digitale (includendo la stampa 3d), software Saas (software-as-a-service), nuovi modelli di marketing, smartphone e simili piattaforme mobili, piattaforme che utilizzano algoritmi per guidare veicoli a motore (strumenti di navigazione, app di condivisione di guida, servizi di consegna /pony express e veicoli autonomi) e la conseguente integrazione di tutti questi fattori nella catena del valore, condivisa da più compagnie sparse in differenti territory della stessa nazione e/o in differenti nazioni.
I vantaggi dichiarati sino ad oggi da numerosi analisti, media, centri studio, governi, management consulting sono una migliore produzione, una crescita dell’occupazione, una maggior efficienza in tutta la filiera produttiva e risparmi energetici. Se per alcuni di questi vantaggi si può essere concretamente sicuri (miglior produzione ed efficienza energetica per esempio) su altri quali l’occupazione ancora si dibatte.
Sia come sia l’industria 4.0 arriverà. La sua velocità nel diventare “la normalità produttiva” dipenderà fortemente da come la società civile e, per conseguenza, la classe governante recepirà questa novità.
Come le classi governanti, per dirla semplice i politici, possano e debbano gestire gli effetti dell’industria 4.0 è forse il tema su cui la società e le corporation che vendono servizi/prodotti 4.0 dovrebbero porre maggior attenzione.
Spesso ci si domanda se i politici e/o i loro analisti (si suppone che abbiano validi consiglieri) abbiano una vera idea di cosa sia la industria 4.0 e soprattutto le sue ramificazioni ed evoluzioni (plausibili) diciamo nei prossimi 20 anni. A mio modesto avviso sono semplicemente ignoranti.
Questo offre uno spunto di riflessione su come i politici dovrebbero affrontare questo scenario e che opportunità si prospettano per i partiti che supporteranno la industria 4.0.
Il termine industria 4.0 si riferisce a una combinazione di numerose innovazioni nell’ambito della tecnologia digitale. I vantaggi dichiarati prevedono una crescita dell’occupazione, una maggior efficienza in tutta la filiera produttiva e risparmi energetici
Ragioniamo in un lasso di tempo di 20 anni.
I fattori positivi di una industria quattro punto zero, riassunti in chiave economico sociale, sono i seguenti.
Prima di tutto un minor costo per addestramento della forza lavoro. Questo non significa che tutti potranno lavorarci, ma la congiuntura tra una forza lavoro cresciuta in un ambiente tecnologico (chi nato dagli anni 80 in poi ha familiarità con computer, pad, cellulari e reti) porta una sorta di naturale predisposizione a comprendere tecnologie avanzate. Chi, per esempio, ha dimestichezza con i videogiochi (si ho detto videogiochi non scioccatevi) di simulazioni produttive potrebbe trovarsi a proprio agio in un ambiente di coordinamento virtuale di produzione (detto in parole povere un sovraintendente degli impianti produttivi). Esempi di video giochi che simulano la gestione (con differenti livelli di difficoltà) di scenari produttivi abbondano: dai simulatori agricoli a quelli industriali fino ai gestori di Tir. Sono solo videogiochi? No. In Australia già ora le maggiori miniere usano camion per il trasporto automatizzati guidati da una camera di regia identica per grafica alle simulazioni che avete visto.
Secondo fattore: l’Industria 4.0 necessita di banda ultra larga per far sì di essere sempre connessa con gli altri hub (noi diremmo i fornitori e i clienti) della filiera. Questo fattore implica un elemento scatenante che è la distribuzione dei siti produttivi tra loro interagenti. Non è detto che le nuove aziende debbano nascere solo in prossimità dei centri urbani (dove tra l’altro i costi di terreni, permessi etc… sono di norma un filo più alti). Consideriamo il nuovo datacenter di Facebook in Lulea (nord Svezia) ha bisogno di tre cose: banda, elettricità a basso costo e freddo per tenere al fresco i giganteschi server. Una zona che non brilla per elevata occupazione si è ritrovata con posti di lavoro altamente specializzati.
Se vogliamo fare un paragone opposto pensiamo alla gigafactory di Elon Musk. (che rientra a pieno nella definizione di industria 4.0) costruita nel mezzo del nulla (costo terreni direi piuttosto basso) con tutte le benedizioni fiscali e normative che una piccola comunità nel centro del nulla può, e vuole, dare ad un sito produttivo che occuperà alcune centinaia di persone.
Restringiamo il campo all’Europa. La mappa qui sotto offre uno spaccato (per stare in Europa) delle aree che hanno come dire alcuni problemi di reddito procapite.
Occupazione e politica vanno spesso a braccetto. Dalla mappa potete notare come, se escludiamo un area austro-italico- teutonica (tutta per lo più nei toni del blu) il resto dell’Europa appare avere solo un puntino blu per ogni nazione (di norma la capitale): Francia, Spagna, Regno Unito etc..
Questa mappa dovrebbe diventare una bibbia sia per i politici che per le industrie 4.0 che hanno interesse a impiantare siti produttivi. Per quale ragione?
Uno dei fattori determinanti dell’industria 4.0, come già detto, è ridurre la manodopera tuttavia mantenendo alti livelli di produzione ed efficienza. Detta così tutti griderebbero allo scandalo per la perdita di posti di lavoro.
C’è un tema che tuttavia spesso non si collega: i posti di lavoro già se ne sono andati. Milioni di posti di lavoro andati in fumo negli ultimi decenni a favore di mercati (asiatici, latini) dove il costo ora lavoro era più basso. Alcune analisi in tal senso le trovate nei paper dell’OECD e dell’Organizzazione mondiale del Commercio.
Facciamo due esempi pratici.
Adidas torna a produrre in Germania. Un sito che occuperà alcune centinaia di persone. Produzione 4.0, quindi personalizzazione massima del singolo prodotto (prima costoso e quindi fattibile solo in paesi dove il costo manodopera era molto basso). Adidas aveva già da tempo fatto offshoring quindi i dipendenti che allora han perso il lavoro si sono rilocalizzati in altre aziende (o son rimasti disoccupati, questo dipende da differenti fattori quali l’efficienza delle agenzie di collocamento, il sistema di supporto sociale tedesco et..). Il nuovo sito di Adidas genererà una crescita economica (tramite le spese dei suoi neo-assunti) alle attività commerciali al dettaglio, sulle compagnia di trasporto e sui fornitori che, non per forza localizzati nella stessa area, potranno avere modo di crescere (ovviamente se anche loro sposeranno la industria 4).
Ford ha deciso di istituire un nuovo impianto industry 4.0 sul suolo Americano, e il settore automotive supporta uno scenario di reshoring per le nuove linee di produzione e la nuova politica (diremmo sovranista) di Trump.
Quindi in un lasso di tempo di 20 anni l’effetto industria 4.0 (che richiederà alcuni anni per dispiegarsi completamente in una filiera) può creare, potenzialmente, posti di lavoro grazie al backshoring di aziende manifatturiere prima all’estero.
Resta quindi una domanda. A quali politici i lobbysti delle industrie manufatturiere che voglio adottare soluzioni di industria 4.0 (e tutti i gruppi che producono soluzioni o software per la industria 4.0) devono rivolgersi per perorare la causa?
Causa che in senso pratico si traduce in: agevolazioni fiscali e contrattuali per le nuove aziende che assumono, per le aziende che introducono nella filiera produttiva nuove soluzioni legate alla industria 4.0.Da qui a 20 anni, l’effetto industria 4.0 può creare, potenzialmente, posti di lavoro grazie al backshoring di aziende manifatturiere prima all’estero
Soluzioni di gestione legale più efficiente e veloce (il mondo corporativo odia la burocrazia lenta). Una regolamentazione governativa che include tutte le complessità che l’evoluzione della industria 4.0 porterà con sè, o quanto meno lascia la porta aperta a modifiche mano a mano che lo scenario si evolverà.
I partiti di sinistra (o se vogliamo democratici) negli ultimi anni hanno portato avanti una politica di supporto all’offshoring. Anche l’ultimo candidato alla presidenza Americana, la signora Clinton era estremamente favorevole al TTP, TTIP, Nafta etc.. tutti accordi che avrebbero permesso una più agevole evoluzione delle attività di offshoring.
I partiti nazionalisti o sovranisti, che in questo momento vedono un periodo di crescita di consenso popolare più o meno in tutte le nazioni occidentali, hanno nella loro agenda di “promesse” il portare lavoro agli elettori.
Unendo una politica di detassazioni, fiscalità agevolata e soprattutto una soluzione di fattori produttivi a costi più contenuti senza rinunciare alla qualità (grazie alla industria 4.0) le corporation possono essere in grado di accettare di aprire o espandere le proprie attività nei territori occidentali in tempi realtivamente brevi (diciamo i 4-5 anni di mandato di un politico medio, Italia esclusa).
È quindi plausibile che gli sforzi (e relative risorse economiche) dei lobbysti delle industria 4.0, delle corporation, think tank etc.. si rivolgano ai politici sovranisti per trovare in loro un alleato? Si. Soprattutto considerando che, escludendo il president Trump, molti politici sovranisti (l’esempio della Le Pen) non se la passano bene in quanto a fondi per le loro campagne politiche, come riporta questo articolo del politico.
L’industria 4.0 può risollevare, quanto meno nel medio periodo, l’economia e l’occupazione di una nazione, se ben guidata e coordinata da una classe politica pronta al cambiamento.
Ho un unico dubbio, si direbbe amletico. La classe politica sovranista è pronta, o quanto meno informata, su questa inaspettata opportunità?