Se un inglese tornasse indietro nel tempo e capitasse, per esempio, nel 1800, non avrebbe particolari problemi a capire la lingua. Lo stesso si può dire anche per il 1700: forse alcune parole desuete gli sfuggirebbero, non capirebbe il senso di alcuni concetti (ma solo perché si riferiscono a usi e tradizioni che sono scomparsi).
E se andasse nel 1500/1600, all’epoca di Shakespeare? Qui si comincia a zoppicare. L’inglese viaggiatore nel tempo comprenderebbe il senso delle frasi, filerebbe tutto più o meno liscio. Certo, in certi momenti resterebbe perplesso: perché per dire tè, che ora si pronuncia “tii”, questi avi dicono “tài”?
Lo racconta bene questo video di Youtube di YesterVid, dove si spiega, andando a ritroso (e con una musica trionfale), come e quanto è cambiato l’inglese.
Il momento più critico, a quanto sembra, è quello in cui avviene il Grande Spostamento Vocalico, cioè tra il 15esimo e il 17esimo secolo. È qui che l’inglese smette di essere una lingua razionale, cioè che collega suono a segno grafico, e diventa anarchica. Se la pronuncia evolve con rapidità, la scrittura resiste con forza, e pian piano le due cose si separano, fino a che tutto, oggi, può essere pronunciato in modo imprevedibile (si ricorda che è proprio grazie al GSV che knead, bread e great, vedono -ea pronunciato in tre modi diversi).
Prima del GSV si può parlare di Middle English. Per capirsi, è quello usato da Geoffrey Chaucer (nel video viene recitato un brano, l’inizio, dei suoi Canterbury Tales). È in questa fase che, dopo una certa incertezza linguistica, si impone uno standard preciso, il Chancery, in cui ortografia e pronuncia sono coerenti. Prima ancora c’è l’Old English, ma lì si affonda nel buio e nell’incomprensibilità (oltre che al ciclo delle saghe nordiche alla Beowulf).