Il grillo parlanteNon basta essere europeisti. Ora diteci che Europa volete

Finora ci siamo scontrati tra federalisti ed euroscettici, ma adesso non è più sufficiente. Se vogliamo davvero andare verso l’Europa politica dobbiamo dire con chiarezza che Europa vogliamo. E scontrarci con chi ne vuole una diversa. Solo la dialettica può dare corpo al sogno

Nel dibattito sul futuro dell’Europa sembra ormai che un passo avanti – piccolo ma significativo – sia stato fatto. Persino i leader conservatori (come Angela Merkel) sembrano essersi convinti che alle spinte centrifughe (che alcuni riducono alla categoria vasta del “populismo”) non si può più rispondere con la difesa dello “status quo” e limitandosi a ricordare i meriti storici dell’Unione Europea nella seconda parte del ventesimo secolo. Bisogna contrapporvi una proposta di riforma radicale delle regole di funzionamento della stessa Unione e dell’Unione monetaria, che parta dalla consapevolezza che quelle che abbiamo non funzionano più.

Tuttavia, questa intuizione va ancora riempita di contenuti. Non abbiamo ancora una proposta vera su cui discutere. E su cui, eventualmente, dividerci. Siamo alle schermaglie, in attesa che le elezioni francesi e quelle tedesche chiariscano qual è la classe dirigente a cui toccherà risolvere il problema.

Anche questo potrebbe, però, essere un errore: troppe volte a ridurre il progetto europeo ad un progetto elitario e dunque debole, è stata proprio la mancanza di un confronto che coinvolgesse le opinioni pubbliche sulla forma delle istituzioni comunitarie. E sugli obiettivi che un governo dell’Unione si deve dare. È arrivato, allora, il momento di avanzare qualche proposta concreta; anche perché dovrebbe esser questo il terreno sul quale regolare la competizione elettorale che, in Italia, è già cominciata tra e dentro i Partiti. A partire da quello Democratico che sopravvive solo se sarà capace di proporre.

Intanto l’Euro. L’errore che, finora abbiamo fatto, è trattarlo come problema di tipo tecnico: l’Euro è stato, invece, sin dall’inizio un progetto politico. Sin da quando Jacques Delors decise di mettere il carro (l’Euro, appunto) davanti ai buoi (l’integrazione politica) scommettendo che l’unione monetaria avrebbe, prima o poi, costretto i Paesi a realizzarne una politica, pur di non pagare il costo esorbitante di un suo scioglimento. Salvare l’Euro vuol dire, come Delors aveva perfettamente previsto, scegliere, oggi, se andare verso forme più avanzate di integrazione o, invece, retrocedere ad un livello inferiore, persino, a quello minimo previsto dal mercato unico (ai quali gli inglesi hanno, appena, rinunciato). E ciò per un motivo semplice: un’unione monetaria può andare avanti solo se affiancata da politiche fiscali e di bilancio sostanzialmente unitarie; ma per avere un unico “ministro dell’economia” è, indispensabile, a meno che non si voglia violare un principio basilare della democrazia, che i cittadini europei lo abbiano votato. Che lo conoscano. Che se ne sentano rappresentati.

Non può, dunque, sopravvivere l’Euro se continuiamo a rimandare la sua “politicizzazione”, lo scontro – inevitabile se davvero vogliamo un’integrazione politica – su opposte visioni sul tipo di società che vogliamo costruire in Europa nel ventunesimo secolo. Finora a Bruxelles e a Strasburgo è prevalsa la retorica; laddove l’unico scontro è stato quello perenne tra euroscettici e federalisti. Se l’Europa sopravvive, non sarà più così. E non potrà più esserne patto fondamentale, un trattato (valido per la zona Euro ma centrale per l’intera Unione) che si limita a ragionare in termini di debito e deficit pubblico.

Salvare l’Euro vuol dire, come Delors aveva perfettamente previsto, scegliere, oggi, se andare verso forme più avanzate di integrazione o, invece, retrocedere ad un livello inferiore, persino, a quello minimo previsto dal mercato unico. Non può, dunque, sopravvivere l’Euro se continuiamo a rimandare la sua “politicizzazione”

L’Europa del futuro dovrà fare scelte. Non solo di limiti al deficit pubblico. Ma anche di composizione della spesa pubblica e di suo limite massimo. Ed i prossimi patti tra Paesi (certamente a più velocità e geometrie variabili) dovranno essere su come distribuire risorse scarse tra pensioni e educazione (laddove tutti i Paesi europei spendono più del doppio sulle prime rispetto alla somma di scuola, università e ricerca). Tra protezione ed investimento sul futuro. Tra protezione di campioni nazionali e creazione di imprese nuovi capaci di cambiare gli equilibri. Che si facciano, finalmente, le riforme strutturali: ma che si chiarisca anche di quali riforme l’Europa – non solo gli Stati, ma anche la stessa Commissione – ha bisogno per raggiungere quei livelli di efficienza minima che i contribuenti europei si aspettano.

Trasformare i finanziamenti pubblici (come i fondi strutturali) gestiti oggi da livelli sovrapposti di burocrazie, in fondi chiusi finanziati insieme a operatori privati che investano competenze e capitali in progetti innovativi. Fornire a tutti – giovani e meno giovani – la possibilità di studiare e vivere in un altro Paese europeo (esiste già Erasmus e servizio civile ma il loro budget è venti volte inferiore a quello che attualmente la Commissione Europea spende in politiche agricole comuni) in maniera che si rafforzi quella cittadinanza europea senza la quale non ci saranno mai opinioni pubbliche europee. Concentrare le capacità intellettuali e manageriali della Commissione (oggi assorbite dal contenuto in plastica delle buste in vendita nei supermercati) su questioni che determineranno il futuro – come quella della regolazione delle piattaforme digitali.

Un’Europa più integrata non potrà che nascere da una visione molto più politica, non di breve termine, capace di coraggio e di reggere lo scontro con chi ne vuole l’azzeramento utilizzando l’argomento della sua obsolescenza. Solo così, dopo un 2016 catastrofico, l’Europa può sopravvivere ad un 2017 che, davvero, potrebbe essere l’inizio della fine.

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