Michele si è tolto la vita a trent’anni perché non trovava lavoro. Così, almeno, ha – parzialmente – scritto nella sua lettera di addio e così è stato raccontato dai giornali. «È omicidio di Stato, come quello di mio figlio», ha dichiarato Claudio Zarcone, , padre di un altro ragazzo, Norman, che nel 2010, a ventisette anni, si era suicidato perché, riportiamo ancora le parole di suo padre, «lo Stato uccide i suoi figli migliori, gli chiude le porte, assassina la speranza, l’entusiasmo e le competenze». Norman era un giornalista pubblicista e aveva quasi concluso il dottorato in filosofia. Michele era un grafico. Nella sua lettera si legge, a un certo punto, «sono venuto al mondo da persona libera e da persona libera ne sono uscito». In ciò che accade tra il nascere e il morire, che è il vivere, invece, Michele ha ritenuto che gli fosse stata sottratta quella stessa libertà. Se la disoccupazione è davvero la ragione per cui si è suicidato, significa che si aspettava che il lavoro lo rendesse libero.
C’è, in questa aspettativa, qualcosa di distorto ed è un qualcosa che, nella doverosa discussione seguita alla lettera di Michele, è stata del tutto tacitata dalla più facile e farraginosa indicazione di un responsabile di questa morte: lo Stato. Gianluigi Paragone ha scritto su Libero che Michele «si è tolto la vita perché vivere da precari non è vivere. Ma il precariato è una legge dello Stato» e «non dite che Poletti non c’entra». È un’indicazione inaccettabile ed è necessario respingerla con forza: metà di quella forza va certamente impiegata a sottolineare che negare una responsabilità statale e sociale nel suicidio di un adulto disoccupato, non significa negare la drammatica situazione in cui versa il mercato del lavoro in questo Paese, né gli errori commessi dalle classi politiche che si sono succedute da ben prima che la crisi economica sconvolgesse il nostro già compromesso sistema.
Il Novecento è, nel nostro immaginario, la scritta Arbeit macht frei – il lavoro rende liberi – scolpita sul cancello del campo di concentramento di Auschwitz. Incredibilmente, alle generazione successive è stata anche inculcata l’idea che il lavoro offra all’uomo la sua libertà, da cui è disceso l’insensato corollario per il quale il lavoro, da che era mezzo della libertà, ha finito con il corrisponderle
“Il suicidio non significa nulla, non vuol significare nulla e appunto per questo rappresenta la migliore prova che l’uomo possa darsi della sua sempre improbabile esistenza. Non siamo necessariamente fatti per il mondo in cui siamo nati e, in certe condizioni, l’inadattabilità supera i nostri poteri di sopportazione. A volte quello che siamo cozza contro quello che è, per un’idiosincrasia che non si può spiegare, ma solo affermare”. Alberto Moravia scrisse queste parole in un pezzo pubblicato sulla rivista Mercurio nel novembre del 1946: il tasso dei suicidi aveva subìto un’impennata e i giornali attribuivano il fenomeno al collasso del dopoguerra. Uno “psicologismo sociale a buon mercato” di cui Moravia accusava i commentatori suoi contemporanei: non lo riprendiamo per fare dell’estetismo letterario, bensì perché il discorso sull’uomo e sull’umano è imprescindibile per accettare che, come ha recentemente ricordato Giuliano Cazzola in una lettera al direttore de Il Foglio, la responsabilità della società nei nostri confronti inizia laddove finisce la nostra.
Non esiste sciagura congiunturale (crisi economica, dopoguerra, disastro ambientale) che giustifichi l’abiura alla vita, così come non esiste legittimità nel giudicarla, né l’opposizione critica al suicidio di Michele passa per un inno alla vita. Vivere è qualcosa di molto di più di un diritto o di un dovere. Quasi sembra, però, oggi, che appartenere alla generazione di giovani italiani sia ragione sufficiente per uccidersi o, scendendo molto di grado nel valore della resa, per cercare un impiego (in Italia ci sono più di 2 milioni di neet, ragazzi che non studiano né lavorano, sprofondati nell’abulia inerziale e rassegnati al sostentamento familiare, la sola forma di welfare che è, di fatto, loro assegnata). Ma se risolviamo così la questione generazionale, facciamo di questo paese uno zombie.
Il Novecento è, nel nostro immaginario, anche, forse soprattutto, la scritta Arbeit macht frei – il lavoro rende liberi – scolpita sul cancello del campo di concentramento di Auschwitz (ma non era da lì che i deportati entravano, quando venivano internati). Incredibilmente, alla generazione di giovani educati alla memoria di quell’orrore, è stata anche inculcata esattamente l’idea che il lavoro offra all’uomo la sua libertà, da cui è disceso l’insensato corollario per il quale il lavoro, da che era mezzo della libertà, ha finito con il corrisponderle. Sta qui la distorsione interna all’aspettativa che Michele e tutta la sua generazione nutrono rispetto al lavoro: che li liberi, li appaghi. Che definisca il loro posto nel mondo e che plasmi il mondo in modo che la loro competenza sia sempre utile. La scuola italiana non è ancora capace di invertire questo mito popolare secondo cui noi siamo la domanda e il paese l’offerta: per moltissime competenze, pur molto richieste dal mercato, nel nostro Paese esiste un corrispettivo insufficiente.
Il prezzo pagato dai molti imprenditori che, dal 2008 a oggi, si sono uccisi perché non riuscivano a pagare i debiti o, peggio, a riscuotere i propri crediti, non ha a che fare con quella aspettativa, tuttavia anche per loro si è sempre parlato di suicidio indotto o omicidio di Stato. Le testimonianze dei loro parenti e le lettere che hanno lasciato hanno un denominatore comune: il profondo senso di vergogna. Pochi mesi fa, durante la presentazione del film “Cronaca di una passione” di Fabrizio Cattani , dedicato proprio a questo (è tuttavia significativo che, dal 2010, l’Istat abbia smesso di registrare i dati ad essa relativi perché è impossibile stabilire se le cause di un suicidio siano economiche), la vedova di un imprenditore veneto ha detto: «Non ci spaventano i sacrifici: a ucciderci sono i giudizi e il confronto». Gli autori di quei giudizi che rendono insostenibile il quotidiano di chi “fallisce” abitano dentro Il Palazzo o nelle palazzine? Daremmo a loro, cioè a noi, la responsabilità del suicidio di chi non riesce a sopportarli?
Sopportare la realtà è inscindibile dal farci i conti: operazione verso cui nutriamo una drammatica ostilità, come è dolorosamente evidente anche nella lettera di Michele, che a un certo punto scrive di aver sempre voluto il massimo e non essersi mai voluto accontentare del minimo. Il minimo è, come ha ricordato Zecchi sul Giornale, la sola strada che porta al massimo. Nella maggior parte dei casi, è una strada lunghissima. In alcuni altri, è una strada che, alla fine, si rivela sbarrata. Non è affatto detto che quello sbarramento sia una svalutazione professionale originata da un male sociale cronico.
È vero: ci è stato consegnato un mondo malandato, iniquo, assurdo, sordo. Tuttavia, quale generazione può dire di averne ereditato uno che rispondeva al canone che aveva in mente? Moravia ereditò la guerra, il fascismo, il dopoguerra: gli fornirono la dolorosa, fondamentale prova che si vive di vita, non di lavoro
Il giorno dopo la pubblicazione delle parole di Michele, l’Huffington Post ha pubblicato interventi di quasi tutta la redazione, introdotti da un pezzo nel quale si sottolineava che, il giorno prima della notizia di Michele, ce n’era stata un’altra che aveva ottenuto quasi lo stesso numero di visualizzazioni: quella sull’incarico assegnato a Chiara Ferragni ad Harvard. Così, il giornale si è interrogato: “trentenni: perdenti o vincenti?”. Non esiste spazio per le mezze misure: il lavoro è per chi vince, eccelle, è star, è icona. A chi salterebbe in mente di accontentarsi della normalità e, men che meno, del minimo, allora, se non a un fallito?
Ancora Zecchi: «Porta al suicidio Michele la sopravvalutazione delle sue qualità, qualità che non sono usate per fronteggiare la realtà, le competizioni complesse, i fallimenti inevitabili». La tendenza a svicolare dalla complessità è un problema enorme per il nostro paese: qualche mese fa, nel pieno della discussione sull’abolizione dell’obbligatorietà del latino e del greco al liceo classico, Luca Ricolfi scrisse che il punto della faccenda non stava nella utilità o meno delle “lingue morte”, ma nella loro difficoltà, ritenuta ormai eccessiva. Quale tipo di futuro prepara ad affrontare una scuola che facilita? “Non mi è stato consegnato il mondo che doveva essermi consegnato”, scrive Michele. È vero: ci è stato consegnato un mondo malandato, iniquo, assurdo, sordo. Tuttavia, quale generazione può dire di averne ereditato uno che rispondeva al canone che aveva in mente? Moravia ereditò la guerra, il fascismo, il dopoguerra: gli fornirono la dolorosa, fondamentale prova che si vive di vita, non di lavoro.