Milioni di millennials hanno quarant’anni e li portano più o meno come Renato Pozzetto in Da Grande (film del 1987 in cui un bimbetto si ritrova improvvisamente intrappolato nel corpo di un adulto). Dopo anni di querelle, il Pew Research Centre, think tank statunitense affidabilissimo sulle rilevazioni generazionali, ha stabilito che i millennials sono venuti al mondo tra il 1977 e il 1992. Eppure, questi milioni di uomini e donne, pur trovandosi circa a metà della propria vita su questa terra, sono incastrati nell’età dell’innocenza. Al millennial, il nostro immaginario fa corrispondere un tragicomico ragazzetto abulico, svogliato, disoccupato, smidollato, internet-dipendente e fustigato dalla congiuntura socio-economica.
Vale in Italia, dove ci sono 2 milioni e 200 mila neet (giovani che non studiano né lavorano), in verità non tutti millennial, e vale in Europa e negli Stati Uniti. Il racconto di questa complessa generazione, spesso imprendibile (in molti hanno ironizzato sul fatto che non esista davvero) e dal nome arrogante, si scosta difficilmente da quello stereotipo e, anzi, spesso lo fortifica, contribuendo a una lettura fasulla del presente. Su Medium, Richie Norton ha pubblicato un lungo pezzo in cui ha smontato, attraverso dati concreti, quattordici falsi miti sui millennials. Quattordici. Ha usato la parola “debunked”, quella che si usa quando si sbugiardano le bufale o, se preferite, le post verità.
Ritchie Norton è autore di molti libri americanissimi su come rendere la propria vita eroica e appagante. È un consulente di quelli che aiutano le persone “a vivere superando le proprie paure ed eliminando i rimpianti”. Indizi stucchevoli, senz’altro. Però, le sue analisi sono incontestabilmente lucide. La sua contro-narrazione sui millennial è, in sostanza, una concisa, pulita, elencazione di dati. Numeri, ricerche, articoli che si è limitato a raccogliere e che, in molti casi, non sono neppure novità: alcuni si riferiscono a diversi anni fa e non sono mai stati smentiti da trend opposti. Nonostante questo, nessuno di essi ha mai inciso sull’immaginario: i millennials “percepiti” rimangono assai peggiori di quelli reali. Generazione narcisista? Fa notare Norton che si parla di “me generation” dai tempi dei boomer, quindi all’incirca dagli anni Cinquanta. Cronica insoddisfazione professionale? Già nel 2010 le ricerche dimostravano che i millennials, rispetto a chi li ha preceduti (boomer e generazione x), sono i meno frustrati su lavoro, quelli più capaci di far progredire la propria carriera.
Generazione narcisista? Cronica insoddisfazione personale? I millennials di oggi sono quelli nati ngli anni ’70 e intrappolati, da allora, nell’età dell’innocenza
A ottobre del 2016, un team di sociologi e psicologi ha pubblicato una ricerca da cui è emerso che i millennials non sono affatto sprovvisti di etica del lavoro, come viene loro spesso rimproverato (in America, li si accusa di aver disperso l’etica protestante del lavoro). Indomabili, restii all’ubbidienza perché disaffezionati alla famiglia? Nel 2015, l’Economist già dava ampio rilievo a un sondaggio condotto dalla University of Southern California da cui era risultato che il 41% dei millennials dichiaravano che il dipendente deve eseguire le indicazioni del capo, anche quando non le comprende: una posizione condivisa solo dal 30% dei boomer.
Si potrebbe obiettare che vengono così fuori una incapacità critica e una sottomissione automatica al lavoro ma, più verosimilmente, si tratta solo della smentita del fatto che i millennials non sappiano rispettare i ruoli. Antonio Polito, poco dopo il delitto di Ferrara (i minorenni che hanno collaborato all’assassinio dei genitori di uno dei due) ha scritto sul Corriere che siamo in pieno “fallimento educativo” e che i giovani non riconoscono l’autorità perché odiano i propri padri, colpevoli di aver lasciato loro un mondo peggiore. Un’occhiata a programmi televisivi e docu-reality show come Il Collegio o Operazione Tata, i cui protagonisti sono millennial e figli dei millennial, offre una imbarazzante, sguaiata conferma a Polito. Quei programmi, però, spezzettano la realtà e la rimontano in modo che abbia la forma della tesi di fondo che vogliono dimostrare.Negli Stati Uniti, il libro più venduto su Amazon è 1984 di Orwell, mentre in Italia è L’età dello Tsunami – come sopravvivere a un figlio pre-adolescente: gli americani temono il totalitarismo, gli italiani la giovinezza.
L’Economist confermava poi che, soprattutto sul lavoro, i millennial sono individualisti: al lavoro di squadra, preferiscono quello solitario (eppure le aziende fanno molta attenzione a selezionare personale che abbia una spiccata capacità di stare in team) perché non si fidano dei propri colleghi, soprattutto se coetanei. Come dar loro torto, se basta accendere la tv o leggere qualche editoriale per avere, della propria generazione, un ritratto respingente?
Siamo in pieno “fallimento educativo”? La sfiducia in un futuro che per molti aspetti è una regressione rispetto al passato, ha contribuito a restituire un’immagine smidollata dei millennials. E l’Italia ha paura della giovinezza
“La verità è che non vuoi cambiare, che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose a cui non credi più”, canta Brunori Sas nel suo ultimo singolo, La verità, che sta facendo conoscere il cantautore al grande pubblico. E, ancora, “Te ne sei accorto, sì, che parti per scalare le montagne e poi ti fermi al primo ristorante e non ci pensi più”. Il grande pubblico non ha esitato a riconoscere la generazione dei trenta-quarantenni, cui Brunori Sas appartiene a pieno titolo, essendo venuto al mondo nel 1977.
Che annata, il ’77. Nascono i primi millennial, finisce il Carosello, gli studenti se le suonano per le strade, in Europa si diffonde il punk, nasce il movimento del ’77. Nel ’77 nasce Ambra, proprio il giorno dopo la morte dell’agente Settimio Passamonti, durante gli scontri tra polizia e studenti, nel quartiere San Lorenzo di Roma: una coincidenza che in molti le hanno fatto notare, tanto che lei una volta ha detto “basta con questo maledetto ’77!”. Dentro quel basta c’è forse la motrice del grande pregiudizio che grava sui millennial: la rottura dei giovani con la militanza politica, con l’adesione – spesso coatta e qualunquista – a ideologie, la sfiducia in un futuro che per molti aspetti è una regressione rispetto al passato, ha contribuito a restituirne un’immagine smidollata, perpetrata poi con la faciloneria con cui vengono cavalcate le lagnanze di massa.
Più che “La verità”, il singolo di Brunori Sas dovrebbe chiamarsi “Post Verità”: il disamore, il disincanto, il lassismo che descrive sono storytelling facilone, inutilmente smentito dai numeri. Neanche un accenno alla tenacia, alla preparazione (i millennial sono i più istruiti di sempre), alla duttilità, alla capacità di abnegazione che pure moltissime indagini accordano ai trenta-quarantenni. Eppure, migliaia di ragazzi si sono sentiti rappresentati dalla sua canzone: meglio, hanno sentito rappresentato il disgusto verso la propria generazione. Un sentimento che – questa sì che è una loro responsabilità – hanno lasciato venisse loro inculcato da vecchi tromboni, gli stessi che li hanno derubati o non si sono accorti della gigantesca rapina che era in atto. Ernesto Galli Della Loggia, classe 1942, ha di recente dichiarato all’Huffington Post di non essersi accorto in tempo dello sfascio del sistema d’istruzione: «Avrei dovuto segnalare la catastrofe, impedire con tutte le mie forze che avvenisse. Invece me ne sono accorto». Commentando gli ultimi, drammatici dati dell’Istat sull’occupazione giovanile in Italia (siamo al 40,1%), Francesco Seghezzi, ricercatore e direttore della rivista Adapt Press, ha fatto notare a Uno Mattina che il sistema scolastico italiano continua a immettere sul mercato del lavoro ragazzi sforniti delle competenze che esso richiede. S’informi, Brunori Sas o lasci stare la canzone sociale.