Perché non possiamo essere felici (e va benissimo così)

La depressione, una sorta di demone chiuso in soffitta frutto del tipo di società in cui viviamo. Ma, anche lo stato d'animo più buio ha i suoi risvolti veritativi e positivi

A gennaio 2017 una delle domande più poste dagli utenti di Google suonava più o meno così: “Why don’t I enjoy life?”, perché non mi piace vivere, perché non sono felice? Una di quelle domande da un milione di dollari, da lasciare spiazzato anche un motore di ricerca che si vanta di essere quasi onnisciente. La rivista Guardian, che da tempo ha una rubrica dove alcuni esperti forniscono risposte autorevoli alle questioni più dibattute dell’internet, ha provato a dire la sua, sollevando un quesito ancora più interessante: “How enjoyable is life supposed to be?”, quanto dovrebbe essere piacevole la vita? Quanto si suppone si debba essere felici?

Ad oggi, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale delle Sanità) la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo dopo le patologie cardio-circolatorie. La prima, se si considera la popolazione di età compresa tra i 15 e i 44 anni. Stando ai dati OMS del 2014 al mondo ci sono ben quattrocento milioni di depressi e sessanta milioni di bipolari. Cifre ovviamente destinate ad aumentare.

Il numero dei malati che aumenta vertiginosamente però pone un’altra questione: cos’è esattamente la salute mentale? Non è che questo dato è influenzato anche dal fatto che l’assicella della cosiddetta normalità si sta alzando sempre più? Stando alla definizione dell’OMS: “la salute è uno stato di perfetto benessere fisico, mentale e sociale, e non solo l’assenza di malattia”. Con uno standard così alto chi di noi, a cuor leggero, è in grado di definirsi totalmente sano?

“Why don’t I enjoy life?” A gennaio 2017 questa era una delle domande più poste dagli utenti di Google, al quale neanche l’onniscente motore di ricerca può dare una vera risposta. Secondo l’OMS la depressione è la seconda malattia più diffusa la mondo. Ma che cos’è esattamente la salute mentale?

Prendiamo il caso della tristezza conseguente a un lutto. Secondo il DSM-III (Manuale Diagnostico e Statistico) del 1980 un individuo è depresso se, per almeno due settimane, presenta cinque dei nove sintomi associati alla depressione, come il calo dell’umore o l’aumento di sonno. Il lutto però aveva un posto a parte: gli autori riconoscevano – come buon senso vuole – la legittimità del provare tristezza per la perdita di una persona cara e stabilivano un anno come tempo massimo per concedersi il cordoglio. Dopo un anno anche il lutto diventava depressione. Nel 1994 il DSM-IV fa scendere il periodo di ragionevole contrizione a due mesi. Il DSM-V, nel 2013, lo porta addirittura a due settimane, equiparandolo a qualsiasi altra forma di depressione, a prescindere dalla causa che la provoca.

Lo psichiatra Allen Frances, tra gli autori del DSM-IIIR, spiega che a suo parere i manuali diagnostici si sono evoluti secondo un’esigenza di semplificazione sempre maggiore. Il DSM-III, in particolare, decide di non tenere più conto delle diverse scuole di pensiero psicologiche e diventa una sorta di breviario compilativo, nel quale i pazienti sono aggregati in base a somiglianze esterne, ignorando le differenze individuali. “L’approccio semplicistico del DSM-III”, spiega Frances: “era necessario per trovare tra gli psichiatri un accordo sulla diagnosi ma sembrava tralasciare quasi del tutto i fattori più interessanti legati al paziente”, come empatia, intuizione, complessità della storia individuale.

Dagli anni ’80 in poi – e ancor di più dal 2013 – ogni tipo di tristezza diventa depressione. A prescindere anche da un fattore in apparenza così fondamentale come la presenza o meno di una causa scatenante. Viene così meno la distinzione fra tristezza cum causa e tristezza sine causa teorizzata da Ippocrate e sopravvissuta per secoli. Il primo ad apprezzarla fu Aristotele, il quale aggiunse una classificazione dei diversi gradi di tristezza, tra i quali il più alto è rappresentato dagli uomini eccezionali perché “tutti gli uomini che furono eccezionali furono malinconici”. A riprova che l’imperativo alla felicità non è stato sempre così pervasivo, anzi.

Ce lo conferma anche Ethan Watters, che nel libro Crazy like us: the globalization of the American psyche, racconta come la malattia depressiva è stata esportata nel mondo a partire dagli Stati Uniti e dall’Europa. In particolare si sofferma sulla “colonizzazione” del Giappone: un paese che, pur avendo un termine (tsundoku) per definire chi colleziona libri senza leggerli, fino a poco fa non aveva un vocabolo per esprimere lo stato d’animo depressivo. Anche perché in Giappone la personalità malinconica era ben vista, era considerata seria e affidabile e il suicidio (il seppuku) era un gesto d’onore, parte di un complesso e antichissimo rituale. Oltre agli psicofarmaci, dunque, è stato esportato un sentimento: è stato creato il bisogno.

Piero Cipriano, psichiatra di un ospedale di romano e autore di diversi libri ispirati alla sua professione, sostiene che l’iper psichiatrizzazione sia una diretta conseguenza dell’attuale civiltà prestazionale, nella quale, come parte di un meccanismo complesso e ben oliato, ogni individuo deve funzionare sempre al massimo delle sue potenzialità. Secondo Cipriano, alla base della rivoluzione psichiatrica in corso c’è l’idea che ogni sofferenza psichica è da intendersi come patologica, e quindi da mettere a tacere con ogni mezzo a disposizione.

Ma non si tratta solo di stare bene. Il vero benessere reclama qualcosa di meglio (better then wel), largo quindi al neuro-enhancement (il potenziamento cognitivo), al doping psichico e alla cosmesi farmacologica, che più che a curare è volta ad accrescere, a potenziare, a stimolare. Ne sono un esempio le varie smart drug, dal Modafinil al Captagon (vietato ma prodotto in Medio Oriente).

Che c’è di male a voler creare una versione ottimizzata di se stessi? Il male è che se questo diventerà lo standard non ci sarà più posto per debolezze, rallentamenti e ripensamenti di cui l’essere umano sembra avere bisogno. «In pratica – spiega Cipriano – oggi l’atteggiamento oppositivo, negativista, apatico, riluttante di Bartleby lo scrivano non assume più il significato della disubbidienza, della forza del voler non fare, ma quello della malattia».

Estirpando la depressione, si va inoltre a negare un importante approccio conoscitivo di cui siamo provvisti. Chi soffre di depressione sa bene che la visione del mondo con cui entra in contatto non è necessariamente sbagliata. È pessimista, è cupa, sicuramente scomoda, ma non ha meno contenuto veritativo di uno sguardo blandamente ottimista. E anche la consapevolezza che forse il giorno dopo le cose appariranno sotto una nuova luce non cancella del tutto la sensazione di aver sfiorato, con il proprio stato d’animo, una sorta di demone chiuso in soffitta: nascosto alla vista, di cui non si parla, ma che sappiamo tutti essere lì.

Non a caso gli studi hanno dimostrato che persone con una lieve depressione hanno una percezione più realistica della vita della maggior parte delle persone “normali”: un fenomeno chiamato “realismo depressivo”. C’è addirittura una teoria, di cui si discute molto negli ultimi tempi, secondo la quale la depressione non sarebbe soltanto un disordine ma un adattamento biologico utile all’evoluzione. Sembra infatti che la profonda autoanalisi e l’attitudine a rimuginare (rumination), l’aumento del sonno REM (che aiuta la memoria), e il disinteresse nei confronti delle varie attività (che provocherebbero distrazione) siano tutti volti a concentrarsi e risolvere problemi complessi che richiedono un’analisi più approfondita del solito.

Che sia vero o no, spiegarlo a chi prova la sensazione di “dover vomitare ma non avere la bocca” (descrizione efficace dello scrittore Andrew Solomon) potrebbe essere di ben poco conforto.

Un’altra lettura funzionale della depressione, più sociologica e meno scientifica, è quella che propongono Aldo Bonomi ed Eugenio Borgna nel loro libro-dialogo Elogio della depressione. In questo caso il riconoscersi fragili, insicuri e malinconici non è che la premessa per ritrovare “quello slancio comunitario rigeneratore che solo ci mette in contatto con noi stessi e con il mondo aperto degli altri”. La depressione, dunque, come richiesta d’aiuto per sfuggire all’isolamento autoimposto.

Moltissimi gli psichiatri e i sociologi che hanno cercato di studiare il fenomeno. Ma la verità è che chi soffre di depressione sa bene che la visione del mondo con cui entra in contatto non è necessariamente sbaglia. Le teorie più recenti identificano la depressione non tanto come un disordine ma quanto come un adattamento biologico utile all’evoluzione

Indipendentemente dalle ipotesi evolutivo-conservative, decidere se la vita debba o meno essere piacevole appare irrimediabilmente complicato. Lo era già nell’età classica: per gli stoici bisognava semplicemente rinunciare a tentare di divertirsi (un consiglio da tenere buono per la serata di capodanno) mentre per gli epicurei non si doveva perseguire altro.

Ad oggi, la presunzione di felicità che sta alla base di tante diagnosi è legata al tipo di società in cui viviamo. In un’epoca di abbondanza, in cui il successo è a portata di mano (a patto di essere abbastanza intraprendenti, e le persone depresse, tendenzialmente, non lo sono) e in cui miliardi di splendidi oggetti portano con loro la promessa di colmare vuoti ed elevarci dai nostri mali, se sei infelice, c’è qualcosa di sbagliato in te. Una sentenza piuttosto crudele.

Perché l’imperativo alla felicità non ci appartiene ed esiste una risposta molto banale alla domanda “Perché non siamo felici?”. Non è perché la depressione è parte del meccanismo evolutivo, e non è perché la tristezza è una rotella inceppata del circuito del nostro cervello. Non siamo felici perché abbiamo il diritto di non esserlo.

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