Chiamateli happy few, o ricchi da paura. Sono le persone molto abbienti che muovono il mercato del lusso mondiale e che, per nostra fortuna, saranno in grado di dare una spinta anche per i prossimi anni al Made in Italy. Secondo uno studio di The Boston Consulting Group (Bcg) per Altagamma, nel mondo ci sono 400mila persone classificate come “beyond money” (oltre il denaro), che spendono ogni anno, a persona, l’equivalente di oltre 50mila euro in beni di lusso, escluse le auto e gli yacht. Se si allarga lo sguardo a quelli che spendono più di 5mila euro all’anno, ritroviamo 17 milioni di persone. Sono i “true-luxurer”, sotto i quali si trovano altri 400 milioni di “aspirational”, cioè chi si permette un prodotto lussuoso ogni tanto. Quello che emerge dallo studio di Bcg (che ha intervistato 12mila persone nel mondo con una spesa media di 36mila euro all’anno) è che la concentrazione di ricchezza e quindi dei consumi nelle mani degli “happy few” continuerà. Se nei prossimi anni i consumi di questi beni continueranno a crescere a una media del 5-6% all’anno fino al 2023 (dagli 860 miliardi ai 1.187 miliardi di euro), sarà soprattutto per la spinta dei “true luxurer”, e delle spese esperienziali: vale a dire hotel di altissima fascia, vacanze super-esclusive, vini e liquori. Sarà però un mercato dove per i marchi del lusso sarà sempre più difficile competere: ne sopravviveranno meno, che diventeranno delle vere potenze mondiali. Per l’Italia ci sono buone notizie, ma solo in alcuni settori della moda: vestiti femminili e maschili, borse e scarpe. Ecco tutte le principali evidenze degli studi di Bcg e Exane Bnp Paribas presentati il 16 febbraio all’evento “Altagamma Consumer and Retail Insight”.
1) Make America rich again
Lo studio di Exane non dice se i famosi minatori in Ohio riusciranno a riavere i loro posti di lavoro, come promesso dal presidente Donald Trump. Ma di sicuro prevede una crescita dei consumi di lusso negli States. I motivi sono due: gli alti livelli di capitalizzazione di Borsa attuali e soprattutto l’abbassamento promesso delle tasse anche alle fasce di reddito superiori. Con buona pace di una campagna elettorale volta ad attaccare Wall Street e l’establishment. Nel mondo, però, dopo un 2016 in contrazione (soprattutto per i prodotti di lusso, non per le “esperienze” di lusso) sono attesi per il 2017 parecchi rimbalzi. Torneranno a salire i consumi in Cina, si riprenderanno quelli nei vari emirati del Golfo, a causa della risalita del prezzo del petrolio. Ma soprattutto ci si attende un super-rimbalzo dei consumi dei russi, dopo anni di limitazioni per le sanzioni e per la recessione. Molto più tiepidi i consumi in Europa (che pure nel 2017 vedrà un Pil di poco superiore agli Usa) e in Giappone, dove dovrebbero scendere.
2) L’orgoglio americano
Se si va a chiedere ai consumatori di lusso di mezzo mondo quale sia la nazione più stimata per la qualità dei prodotti, la risposta è l’Italia. Vale per i cinesi, per i russi, per i giapponesi. Ma se lo si chiede agli americani, la risposta è diversa: è il “Made in Usa” a essere considerato il non plus ultra della moda mondiale. Un rinnovato orgoglio patriottico che, assieme alle proposte di dazi sulle importazioni di Trump, è un segnale da non sottovalutare per i marchi europei. L’impatto dei dazi sarà però, secondo Exane, piuttosto limitato.
3) L’orgoglio italiano
Dunque, il Made in Italy è considerato il top nel mondo del lusso. Anche in questo caso dobbiamo parlare di declino, di una vecchia gloria che si sta impolverando? Tutt’altro, a leggere i dati di Bcg. Tra il 2014 e il 2016 c’è stato un vero boom dell’apprezzamento per i prodotti italiani (escluse auto, yacht e oggetti di design), che hanno portato a distanziare i classici dominatori del lusso, ossia i francesi. Al terzo posto ci sono i prodotti americani, mentre sono piatti o in discesa, agli occhi dei consumatori, quelli di Germania, Regno Unito, Svizzera, Cina. Attenzione, però: il Made in Italy che funziona è quello della moda, femminile e maschile, e delle borse e scarpe. C’è una discesa per il mondo dei gioielli e ancor di più per quello dei profumi e cosmetici. Quello è il regno incontrastato dei francesi.
Tra il 2014 e il 2016 c’è stato un vero boom dell’apprezzamento per i prodotti italiani nel mondo. I francesi, al secondo posto, sono stati distanziati
4) Le spine cinesi
“China, China, China”: il Paese è stata l’ossessione di Donald Trump. E la Cina è un gran mal di testa anche per il mondo del lusso. Le tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina sono visti come il principale rischio per i beni di lusso per il 2017. Ma il Paese, indipendentemente da questo, è complicato da leggere. La domanda di beni di lusso è ancora altissima. Ma è decisamente finito il boom dei negozi dei marchi occidentali nel Paese, si va verso una “selezione darwiniana” dei punti vendita, e in particolare degli shopping mall dedicati al lusso. Inoltre si sentono ancora gli effetti delle politiche anti-corruzione, che hanno colpito i marchi di lusso, e dell’esplosivo e-commerce (su piattaforme prettamente cinesi, a partire da Tmall, del gruppo Alibaba), che ha catalizzato sempre più i consumi dei clienti cinesi. Il risultato: in soli due anni si è invertito il rapporto di beni di lusso acquistati dai cinesi: erano per due terzi all’estero, ora sono per due terzi domestici. Un bel “mal di testa” per i tanti negozi nei centri storici e negli aeroporti che sull’offerta ai cinesi avevano costruito le loro fortune.
5) I Millennials spadroneggiano
Potranno essere, almeno da queste parti, la generazione perduta. Ma se si guarda ai super-ricchi nel mondo, i Millennials, ossia la generazione nata a partire dagli anni Ottanta, sono dei consumatori di lusso formidabili. Pesano come numero per il 50% degli utenti e come spesa per quasi il 40 per cento. Sono tutt’altro che “imprendibili”, come spesso vengono dipinti, ma hanno una caratteristica, ha spiegato Armando Branchini, vice presidente Fondazione Altagamma: “Si annoiano”. Che si parli di offerta di prodotti o di layout dei negozi, serve dinamismo per intercettarli. Anzi: “Serve tornare alla creatività, che da qualche anno è passata in secondo piano rispetto ai discorsi sul brand e di tipo corporate”, aggiunge solca. La fantasia è potere.
6) Prezzi: qui nessuno è fesso
Tecnicamente si chiama “disallineamento prezzo-valore”. Vale a dire che a fronte di una costante crescita dei prezzi dei prodotti di lusso, a partire da quelli delle borse, i consumatori stanno cominciando a capire che non c’è alcun vero vantaggio in termini di qualità. Lo pensa il 52% dei clienti sentiti da Bcg, e addirittura il 58% degli americani. Un terzo dei consumatori percepisce proprio un problema di qualità (nei Paesi emergenti soprattutto si fa un discorso di mancata esclusività). Ma soprattutto, tra chi percepisce questo “disallineamento”, 8 su 10 reagiscono. Come? In un quarto dei casi comprando altri marchi di lusso. In un altro 45% andando a cercare sconti online o negli outlet (attenzione, lo fanno anche i super-ricchi). Ma soprattutto, in un decimo abbondante dei casi passano a prodotti di fascia inferiore, cioè “premium” e non lusso. Tra chi fa “trading down” un terzo predilige addirittura il fast fashion. Chi lo ha capito ha vinto. Un nome su tutti? Michael Kors, uno dei marchi più in auge tra chi potrebbe spendere di più ma si ferma prima.
I consumatori stanno cominciando a capire che negli ultimi anni c‘è stato un incremento eccessivo dei prezzi senza alcun vero vantaggio in termini di qualità. Lo pensa il 52% dei clienti. Di questi, otto su dieci reagiscono cambiando marchi, cercando offerte o passando a prodotti di fascia inferiore
7) Cravatta addio
Il lusso sta benone, ma cos’è il lusso? Di certo è sempre meno identificato con l’abbigliamento formale. Sono lussuose le scarpe sneaker (vedi Tod’s), i piumini (vedi Moncler), i maglioni (vedi tutti i campioni del cachemire). Ma insomma, la cravatta piace sempre meno, soprattutto ai Millennials. Questione di un clima sempre più informale negli uffici e dell’emulazione di manager e classe dirigente che rinuncia alla giacca e cravatta. Questa crescente preferenza per il “casualwear” riguarda ben due terzi dei consumatori mondiali di beni di lusso.
8) Scarpe-mania
“La follia delle donne”, avrebbero detto Elio e le Storie Tese. Le scarpe sono al primo posto per l’“appetito” dei consumatori e soprattutto delle consumatrici di beni di lusso. Ben il 40% di loro prevede di spendere il 20% in più in futuro rispetto a quanto non facesse prima. Seguono per “appetito” i profumi e cosmetici, orologi e gioielli, borse e vestiti. Piatti gli occhiali, in discesa la piccola pelletteria e, come si diceva, le cravatte e i foulard.
Il prezzo di vendita “retail” vale 8-10 volte il prezzo di produzione. Se arriva un nuova catena che prevede pochi negozi con pochi prodotti e un’ampia scelta di prodotti da comprare online e ricevere in tempi rapidi, può abbattere i prezzi e spiazzare tutti gli altri
9) Negozi, fine della corsa
Lo stop mondiale alle aperture dei negozi non riguarda solo la Cina (vedi punto 4). Il 2016 è stato il primo anno in cui i monomarca chiusi sono stati pari a quelli aperti. Aprire all’infinito non era possibile, ancor meno con la crescita dell’online (Linkiesta ha avuto modo di parlarne in passato, suscitando qualche ira di troppo). Questo non significa che il negozio monomarca sia meno centrale. Solo, diventa il perno di un sistema che si gioca sulla omnicanalità. Diventa cioè una vetrina dove far vedere e toccare i vestiti e dove dare consigli. Le vendite potranno avvenire in negozio o online. C’è spazio per tutti: chi compra sia online che nel canale fisico spende il 40% in più di chi compra solo nel canale fisico. Certo, è un quadro un po’ preoccupante per il mondo del franchising.
10) I negozi 2.0
Con i consumi che cambiano velocemente, i negozi trovano ampi spazi per sperimentare. I nuovi entranti hanno grandi opportunità: basti pensare che il prezzo di vendita “retail” vale 8-10 volte il prezzo di produzione. Se arriva un nuova catena che prevede pochi negozi con pochi prodotti e un’ampia scelta di prodotti da comprare online e ricevere in tempi rapidi, può abbattere i prezzi e spiazzare tutti gli altri. È il caso, citato da Luca Solca di Exane, della catena Bonobos. Ma c’è grande spazio per la sperimentazione. Parole d’ordine sono: la creazione di negozi diversi per i differenti segmenti di clientela (Tiffany @Harrod’s per esempio si rivolge solo agli ultra-ricchi); le vendite a inviti in luoghi riservati (come ha fatto Moët-Hennessy a Parigi, assicurandosi vendite medie di champagne e liquori per 75mila euro); e la lavorazione in vetrina. È quello che ha fatto Fendi a Roma: lavoratrici che assemblano le pellicce davanti al pubblico. Come succede in genere nei grandi ristoranti stellati.