“The times, they are a-changing”, verrebbe da pensare, guardando tutto ciò che avviene dalla Casa Bianca in giù. Certo, non è l’utopia in Terra che il popolo degli anni ’60 si aspettava ma, senza dubbio, è un cambiamento. E la canzone di Bob Dylan, in ogni caso, si adatta a ogni periodo, lasciando ogni volta il solito dubbio: ma perché i tempi “are a-changing”. Perché deve mettere quello strano “a-”? Non basta “are”?
A quanto pare, no. Il prefisso “a-”, sebbene non venga insegnato nelle scuole italiane, era piuttosto comune nell’inglese del XVII secolo. Per capirsi, quello di Shakespeare (e non è un caso che lo si ritrovi senza problemi in vari passaggi della sua opera). Serve a sottolineare l’intensità di un’azione, l’assorbimento delle energie del soggetto (“He’s a-running, and fast! = “Sta stracorrendo”), e anche un movimento verso/dentro qualcosa, che si ritrova in composti ormai cristallizzati come a-bout, a-long, a-breast. I tempi, insomma, cambiano in modo molto, ma molto intenso.
Dylan, però, non stava citando Shakespeare o Marlowe. Il prefisso si ritrova ancora oggi in alcuni dialetti americani, ad esempio in quello parlato intorno agli Appalachi (per chi non sapesse dove si trovi questa catena montuosa, qui c’è la cartina):
Un tratto colloquiale che, nelle intenzioni del neo-premio Nobel, avrebbe dovuto trasmettere quel sentimento popolare nato da meccaniche molto terrestri, che gli anglofoni colgono al volo e i non anglofoni, per colpa delle scuole italiche, no.