Viva la FifaAiutate Zeman a uscire per sempre da Zemanlandia

Da Licata a Foggia, Zeman ha dato spettacolo. Poi qualcosa è andato storto. Si è creato un personaggio fisso, una maschera stereotipata che non si toglierà più: gliela stiamo trattenendo a furia di retorica nostalgia per una Serie A che non c'è più

Piccolo esperimento, per cominciare. Non è passato molto da quando abbiamo celebrato gli 80 anni di Carlo Mazzone, che però tutti chiamiamo Carletto, perché con lui siamo cresciuti un po’ tutti. Mazzone è stato uno dei protagonisti del nostro pallone, avendo cominciato ad allenare nel 1968 ad Ascoli e finendo nel 2006 a Livorno, dopo una vita calcistica sparsa per squadre e categorie diverse. Un grande, Carletto. Ci manca, certo. Se domattina dovesse svegliarsi e ripensarci, dicendosi disposto a tornare su una panchina, una qualunque, partirebbe il solito carosello: Er Pupone, le imitazioni di Teocoli, i pugni vibrati in aria dalla panchina, Se famo er terzo vengo sotto aa curva e via discorrendo. Sarebbe un omaggio che considereremmo tenero, doveroso. Ma sarebbe quantomeno ingeneroso. E sbagliato. Perché Carlo, Carletto, sor Carlo che dir si voglia, è stato molto più di una semplice macchietta calcistica. Mazzone è stato un allenatore vero, tosto, verace ma con una profonda conoscenza della materia calcistica. Per dire, da romano e romanista è riuscito a gestire un giovane, timido ma scalpitante Francesco Totti: in 25 anni di carriera del numero 10 a Roma, non tutti possono dire di essere riusciti a fare altrettanto. Così come non tutti possono dire di essersi ricordati di Roberto Baggio, quando dopo la fine dell’avventura interista sembrava un appestato. Uno che aveva quasi vinto un Mondiale da solo e un Pallone d’Oro si era ridotto ad allenarsi dietro casa, in attesa di un telefono che non squillava mai. Fu Mazzone ad alzare quella cazzo di cornetta, a pochi giorni dall’inizio del campionato. E a riuscire a creare un ecosistema di stelle a dimensione provinciale: Baggio, Guardiola e Pirlo nel Brescia, ma roba da matti. E Guardiola, quando da tecnico portò il Barcellona a giocare la finale di Champions League del 2009 a Roma, volle Mazzone allo stadio: «Lui è il mio maestro», mica solo Johan Cruyff, che di quel Barcellona dedito al tiki-taka fu membro fondatore e ispiratore massimo.

Ma ai giornali questo interessa poco. Così come, ammettiamolo, interessa poco ai tifosi. Viviamo in un’epoca nel quale il calcio è diventato materia per inguaribili romanticoni. Crediamo di essere malati di nostalgia, quando invece ci ostiniamo ad amare le maschere che abbiamo fatto indossare, spesso a forza, ai personaggi del calcio. Quando giocavamo all’oratorio il sabato o la domenica, magari con ancora una radiolina accanto ai giacconi usati come porte, immaginavamo di essere Batistuta o Pagliuca (due a caso, dipende quanti anni avete). Oggi invece, per quella distorsione tipica di chi ricorda i momenti belli, compiamo l’errore prospettico di credere che di quel mondo, di quella Serie A fortissima, ci arrivino a mancare che so, Daniele Carnasciali o Cleto Polonia. Bravi eh, per carità, mica è da tutti arrivare in A. Però non esageriamo. Ed è in questa eterna nostalgia, eterna e forzata, che ci aggrappiamo a personaggi come Zdenek Zeman. Anche lui, volendo, è eterno. Ciclico, aggiungiamo con certezza. Se Carlo Mazzone è Carletto il furioso, Zeman è il boemo che fuma, parla poco e compie sempre le stesse scelte (il 4-3-3, i gradoni) e che è il simbolo dell’antisistema, di quello che ha scelto di vincere poco e divertire tanto perché fuori dal giro che conta.

Uno stereotipo vivente. Una maschera che lui ormai ha imparato a indossare. Perché Zeman è uno che sa bene che certe cose funzionano. Come? Con ciclicità precisa, appunto. Ogni volta è sempre la stessa storia. C’è una squadra di piccolo-medio livello con il morale sottoterra. C’è bisogno di rivitalizzare una piazza smorta, con i giocatori che corricchiano svagati e i tifosi che mugugnano (e che a volte arrivano al campo di allenamento con intenti poco amichevoli). Così alzi il telefono e nel giro di qualche giorno ti ritrovi in una sala stampa gremita di giornalisti sorridenti e che si danno di gomito ad osservare un tizio con la voce bitumata da anni di sigarette d’ordinanza, che guarda nel vuoto e tira fuori due o tre parole forzate. Ma non importa la quantità, perché sai già che il giorno dopo siti e giornali apriranno con “Il Pescara/Foggia/Fenerbahce/Casalpalocco sogna con Zemanlandia”. Ecco, Zemanlandia. La terra dove scorrono fiumi di latte, miele e attaccanti esterni. Una roba pazzesca, mai vista a suo tempo. Se vai a Foggia e ne pronunci il nome, ti sei guadagnato almeno un paio d’ore di aneddoti. Quel Foggia lì era fortissimo. Una novità assoluta, per chi non masticava di calcio locale e non aveva ben presente cosa fosse venuto prima, cioè il Licata di Zeman, una squadra siciliana interamente composta da giocatori del vivaio che riuscì ad andare per la prima volta in Serie C1 grazie ad un gioco offensivo e brillante. Dobbiamo segnare un gol in più? E allora segniamolo. Sarà anche per questo che una volta approdato a Messina lancerà un certo Salvatore Schillaci. Ma Zeman è Foggia, soprattutto Foggia. Lì si aprono i cancelli di Zemanlandia. Il problema è che non si sono più chiusi. Zeman ha costruito un piccolo mondo fatto di spettacolo e gol: 4-3-3 e tutti a caccia della porta. Per dire, i rossoneri pugliesi riuscirono anche ad ottenere il secondo miglior attacco dopo i rossoneri di Milano. Ma Foggia per Zeman è stata allo stesso tempo l’inizio della sua rovina. Quello è stato il momento nel quale la stampa si è concentrata sui nomignoli, i soprannomi, le suggestioni da gettare in pasto ai tifosi: Zemanlandia perché era un parco giochi dove il pubblico si divertiva, ma anche il “Trio delle meraviglie” composto da Signori, Rambaudi e Baiano. Lui diventa ufficialmente il Boemo, che soppianta “Il Muto” nato ai tempi di Palermo, quando lavorava nelle giovanili rosanero.

Abbiamo cristallizzato Zeman, candito avrebbe detto Montale, impedendogli una fuga da quel personaggio che lui si è costruito e che noi vogliamo resti così per sempre. E alla fine, si è prestato al gioco.

Zemanlandia è rimasta lì, in sospeso. Zeman è andato via, chiamato dalla capitale. Il secondo posto con la Lazio, poi il passaggio alla Roma, quindi dopo tanto girovagare il ritorno proprio lì, a Foggia. Nel mezzo, nessun trofeo, nessuna nuova idea. Sempre 4-3-3 e i gradoni. Quelli che, dicono, hanno permesso a uno come Totti di arrivare fino a 40 anni con un fisico ancora integro. Dicono. Il fatto è che il calcio è andato avanti, ma Zeman e la retorica zemaniana sono rimasti lì, aggrappati a quell’idea romantica e immarcescibile di Zemanlandia. E tutte le volte che il boemo ha provato a cambiare, è rimasto invischiato il quell’idea romantica e immarcescibile di cui sopra. Abbiamo cristallizzato Zeman, candito avrebbe detto Montale, impedendogli una fuga da quel personaggio che lui si è costruito e che noi vogliamo resti così per sempre. E alla fine, si è prestato al gioco. Ha vestito i panni di quello che va contro il sistema, ha parlato di calcio e doping, di accuse più o meno velate alla Juventus. Non tutti hanno gradito: Vialli gli chiese un risarcimento miliardario. Sulla questione, Zeman ha fatto quello che negli anni siciliani avrà imparato ad essere definito come trasi e nesci: prima «Il calcio deve uscire dalle farmacie», poi «Non volevo alzare un polverone ma suscitare una presa di coscienza e aprire un dibattito prima di tutto con loro», quindi la sua battaglia è rimasta lì, in sospeso. Ogni tanto la ritira fuori in qualche intervista, non ha fatto più nomi e cognomi, ma ci piace pensare sia ancora un paladino di tale battaglia, sebbene citare uno studio americano sul 16% di atleti dopati da parte sua non dovrebbe essere sufficiente.

Insomma, Zeman ci ha provato a non essere più quel Zeman. Lo ha fatto anche mettendo da parte il 4-3-3: a Cagliari ha anche giocato con il centrocampo a 5. Poi è tornato indietro, come sempre. A Foggia è stato due volte, così come a Roma e Pescara. Il suo essere antisistema lo ha portato ad essere ormai quello che viene chiamato a sobillare le folle. Un globetrotter della panchina. Uno che non può esimersi dal tornare dove è già stato. Come a Pescara, dove ha fatto crescere Insigne (già allenato a Foggia), dato fiducia a Immobile, intuito che Verratti magari è il nuovo Pirlo. Ma ha (e abbiamo) incastonato il tutto nel solito rituale, che è quello ciclico: arriva, spiccica due parole, titoloni, Zemanlandia, i gradoni, lo schema a 3 punte, prima partita spettacolare, poi si affloscia, retrocede o viene esonerato, quindi il dubbio finale: non è che Zeman si dovrebbe svecchiare, cambiare un po’? Fino alla prossima nostalgia per Zemanlandia, chiaro.

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