Qui fuori, qui nel mondo normale, c’è un leader politico che piace molto, con un gradimento in costante ascesa. È piuttosto tranquillo, governa da quasi cento giorni e non ha ancora litigato con nessuno. Ieri è andato per la prima volta in tv, a Domenica In. Non ha irritato i sindacati, né il suo partito, né i suoi alleati, né i giovani, né i pensionati, né l’Europa. Non ha fatto promesse, anzi: ha ammesso che la crisi morde ancora e che il governo deve darsi un passo più strutturale. Non ha portato slide. Non ha fatto battute, che peraltro mai si è concesso: l’unica spiritosaggine registrata dai cronisti in tre mesi è un «Mi viene lo scompenso», pronunciata riguardo alle richieste europee poco dopo le dimissioni dal Gemelli per un’aritmia cardiaca. Ahahahahaha.
Paolo Gentiloni ieri in tv ha detto che vorrebbe fare governo “rassicurante”, e in parte c’è già riuscito mentre gli altri si accapigliavano. La sua marcia negli indici di gradimento è impressionante: l’ultima “mappa” di Ilvo Diamanti lo piazza a quota 48. Tenete conto che Matteo Renzi, nell’intero 2016, persino nei momenti più fulgidi non ha mai superato quota 44 e per mesi è stato sui 40: ora è al 33, sotto a Di Maio, Salvini e la Meloni.
La silenziosa avanzata del presidente del Consiglio fa riflettere. Finora si è pensato che l’alternativa al grillismo andasse costruita usando metodi “grillini” per veicolare contenuti diversi: una quotidiana visibilità mediatica, attivismo sul web, demonizzazione del nemico. Che cosa è stata la stagione dell’attacco ai “gufi” e ai “professoroni” se non una fotocopia delle campagne anti-kasta e del ki-ti-paka? La stessa estetica renziana è apparsa, spesso, come una competizione sul terreno Cinque Stelle, dal giovanilismo ostentato alla versione piddì dell’uno-vale-uno, e cioè la promozione a incarichi di gran peso di personale politico appena svezzato o addirittura alla sua prima esperienza parlamentare. E’ una strategia (o forse una vocazione profonda dell’uomo) che si è accentuata nel tempo, e che ha raggiunto il culmine nella campagna referendaria con il manifesto che invitava a votare Sì per “diminuire il numero dei politici”, ritirato dopo una vera bufera.
La marcia di Gentiloni negli indici di gradimento è impressionante: l’ultima “mappa” di Ilvo Diamanti lo piazza a quota 48. Tenete conto che Matteo Renzi, nell’intero 2016, persino nei momenti più fulgidi non ha mai superato quota 44 e per mesi è stato sui 40: ora è al 33, sotto a Di Maio, Salvini e la Meloni
Questo tipo di renzismo ha fatto scuola, come sempre accade con i leader forti. E sul territorio sono spuntati come funghi dirigenti che affidavano allo sprezzo, al sarcasmo, all’eloquio populista la rappresentazione di se’. Indimenticabile il #ciaone di Ernesto Carbone alla sinistra che perdeva il referendum sulle trivelle, o certe esibizioni di Vincenzo De Luca, o le battute sui «partigiani veri» di Maria Elena Boschi, episodi spesso derubricati a gaffe ma in realtà rivelatori di una scelta politica molto precisa e strettamente imparentata con quella dei grillini: l’uso della dichiarazione urticante, del “pane al pane e vino al vino”, per conquistare consenso presso un elettorato che si immagina generalmente poco colto, amante dei toni urlati e delle iperboli, becero. Insomma, più o meno come le platee di Giletti o di Del Debbio dove però gli applausi sono a comando. E infatti, fuori da quel contesto, gli applausi non sono arrivati.
Che oggi uno come Gentiloni, che per formazione e stile è l’esatto contrario di quel modello, raccolga quasi la metà delle dichiarazioni simpatizzanti degli italiani, rivela fino a che punto la trappola populista abbia danneggiato Matteo Renzi e il suo partito. Non è il primo a cui succede. Molti solidi capi politici sono stati rovinati dalla ricorsa dei loro avversari interni ed esterni e della loro modalità politica, basti pensare al disastro di David Cameron, che davanti al successo dell’Ukip di Farage alle europee indisse il referendum sulla Brexit immaginando di batterlo sul suo stesso terreno e ne finì travolto. O a Silvio Berlusconi, che a forza di indulgenza e imitazione degli eccessi leghisti, ha consegnato a Salvini il Nord.
Insomma, qui fuori, nel mondo normale, si ha la sensazione che la famosa alternativa a Beppe Grillo, quella che Matteo Renzi ha rivendicato tante volte come il nocciolo della sua esperienza di potere dicendo «O con me o vincono loro», in realtà vada cercata da un’altra parte e sia costituita da un rifiuto totale dei metodi, dell’estetica, del terreno di scontro dei grillini, oltreché da un’idea meno nevrotica del comando. Gli italiani che simpatizzano per la premiership “invisibile” di Gentiloni sembrano dire questo, chissà se qualcuno li ascolterà.