Era dato per certo che La La Land si aggiudicasse l’Oscar come miglior film del 2017: è stato così solo per qualche minuto, il tempo che, durante la cerimonia di premiazione, dalla regia si rendessero conto che a Warren Beatty e Faye Dunaway, sul palco per consegnare la statuetta, era stata consegnata la busta sbagliata. Brian Cullinan, responsabile dell’errore, è stato licenziato e ha ricevuto così tante minacce che da due giorni vive sotto scorta: l’America (il mondo?) non ne può più di finali a sorpresa sbagliati.
La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane è stata raccontata dalla stampa internazionale come un gigantesco sbaglio. Un doppio sbaglio: degli elettori (“Cosa hanno fatto?” titolava il Daily Mail) e degli analisti, che si erano detti certi della vittoria di Hillary Clinton. «Non stavamo avendo una conversazione basata sulla realtà», ha dichiarato nei giorni seguenti l’anchorman della CNN, John King.
Il giorno della Brexit, la Gazzetta del Mezzogiorno è arrivata in edicola con il titolo “La Gran Bretagna resta nell’Ue”. I giornali italiani erano andati in stampa qualche ora prima della fine dello spoglio delle schede del referendum inglese: quelli che, come la Gazzetta del Mezzogiorno, avevano azzardato comunque il risultato, avevano affidato la vittoria al fronte che, ancora secondo analisti e opinione diffusa, avrebbe vinto. Errore.
Della rosa dei favoriti a Sanremo, quest’anno, solo Fiorella Mannoia si è avvicinata alla vittoria: gli altri, kaputt. Fuori dai giochi quasi in prima battuta anche Al Bano e Gigi D’Alessio, sempre graziati dal televoto perché per il pubblico da casa è importante che il festival cambi tutto senza cambiare niente. Almeno, così avevamo imparato a credere. Errore.
Roma-Atalanta, aprile 2016: Roberto Spalletti manda in campo Francesco Totti a dodici minuti dalla fine. È il suo ultimo, disperato tentativo di salvare la partita. Totti segna e i romanisti piangono come padri durante la sessione di laurea dei figli. Su Spalletti si scatena la bufera, viene rimproverato di malafede, di attingere dall’esperienza anziché dalla realtà: i fuoriclasse non fanno giurisprudenza.
Così, dalla semplice successione temporale di giorno e notte, non solo desumiamo, ma pure postuliamo che il giorno segua la notte. Quello cui la realtà ci abitua, però, non è il solo andamento possibile della realtà
Invece, è la realtà che non fa giurisprudenza.
Non è necessario che il sole sorga tutti i giorni e per questo non esiste alcuna certezza che continuerà a farlo: se crediamo il contrario è solo perché siamo prigionieri dell’esperienza. Con questo esempio, David Hume, empirista, spiegava la critica al principio di causa, uno dei punti fondamentali della sua filosofia, quello che svegliò Immanuel Kant dal “sonno dogmatico”.
Per Hume, noi tendiamo a confondere il paradigma causale con quello temporale perché crediamo che l’esperienza della realtà sia la realtà. Così, dalla semplice successione temporale di giorno e notte, non solo desumiamo, ma pure postuliamo che il giorno segua la notte. Quello cui la realtà ci abitua, però, non è il solo andamento possibile della realtà e, pertanto, la conoscenza che traiamo dalla nostra esperienza, pur essendo la sola a nostra disposizione, è fortemente limitata.
Per Hume, presiede la possibilità dell’errore la confusione tra post hoc (dopo ciò) e propter hoc (a causa di ciò). Per noi, presiede la possibilità dell’errore la confusione tra post verità e verità. In entrambi i casi, la dimensione temporale ha un ruolo fondamentale. Post verità è un nome che ci consegna a un futuro dove tutto ciò che il mondo è stato finora, verrà drammaticamente smentito.Post verità è un nome che ci consegna a un futuro dove tutto ciò che il mondo è stato finora, verrà drammaticamente smentito
L’attualità recente sembra accanirsi sullo sgretolamento delle nostre certezze ed è probabilmente per questo che cerchiamo di iscriverci dentro un paradigma di prevedibilità. Le tastiere dei nostri computer e dei nostri telefoni ci suggeriscono cosa scrivere, ritenendo che le nostre vite siano fatte di momenti codificati (sono a lavoro, non posso rispondere, sono in riunione, sto dormendo: sono alcuni dei suggerimenti della scrittura intelligente) e di pensieri esprimibili con un vocabolario ridotto, circostanziato alla frequenza d’uso (whatsapp registra le parole che usiamo di più e ce le propone mentre ne digitiamo delle altre).
Gli algoritmi ci immettono in precise fasce di consumo. I social network ci esortano al contatto con gli utenti a noi più affini: il bias ci mostra un mondo a immagine e somiglianza della nostra conoscenza, che in questo modo diventa un anello, un vincolo all’abitudine, mentre dovrebbe essere quel qualcosa che da essa ci disarciona.Il nostro presente sta bastonando con un certo accanimento tutte le nostre previsioni, i nostri dati, le nostre certezze. Crediamo si tratti di uno sconvolgimento epocale, parliamo di grande transizione e, in parte, abbiamo ragione, ma le teorie sulla circolarità della storia e sul suo ripetersi, che hanno senso solo se estirpate dalle congiunture particolari, ci hanno rintontiti. Gli anni ruggenti precipitarono bruscamente nella Grande Depressione così come otto anni di presidenza di Obama sono precipitati nell’amministrazione Trump.
Pretendiamo che la realtà ci assomigli e conforti: quando non lo fa, cerchiamo i colpevoli e li indichiamo in coloro che hanno il compito di raccontarcela, esplorandola e codificandola
Pretendiamo che la realtà ci assomigli e conforti: quando non lo fa, cerchiamo i colpevoli e li indichiamo in coloro che hanno il compito di raccontarcela, esplorandola e codificandola. Li accusiamo di starsene dentro una bolla, dentro una frattura. Il giornalismo viene fatto a pezzi ogni giorno perché sembra improvvisamente capace di perpetrare solo menzogne. Può darsi che sia vero, ma bisogna cominciare a domandarsi se il giornalismo non sia arrivato a questo perché ha dovuto assecondare la pretesa del pubblico di possedere la realtà, di desiderare solo evidenze.
Per offrire le evidenze, si devono per forza di cosa ignorare le non evidenze. Per offrire le verità, si devono per forza ignorare le non verità. Il punto è che anche le non verità fanno parte della realtà. L’errore sta nella realtà e lo scollamento dalla realtà altro non è che lo scollamento dall’errore.
Le piattaforme virtuali eliminano le componenti contraddittorie della realtà: commettono errori, ma non ne contemplano. Crediamo che la realtà che lì esperiamo sia, dopotutto, uguale a quella concreta e ci disabituiamo, così, alle sue asperità, alla sua mancanza di senso. Ed è per questo che siamo finiti devoti alla mistica della verità, mentre avremmo bisogno di una mistica dell’errore, che è la sola base certa di ciò che ci concreta. Per questo Hume consigliava sempre e comunque di esperire il mondo: era il solo modo per restare ben consapevoli dei propri limiti.