Lavoratrici autonomeFiglie di uno Stato minore: la corsa a ostacoli delle mamme partite Iva

Hanno diritto a cinque mesi di maternità, ma con astensione obbligatoria dal lavoro. E l’iter è pieno di ostacoli e inghippi burocratici, così in tante rinunciano

«Buongiorno, sono una lavoratrice con partita Iva, vorrei sapere se ho diritto all’indennità di maternità». «Un attimo solo, prendo la normativa e le rispondo». Parte la musica e l’attesa. Alla cornetta c’è un operatore del contact center dell’Inps. Dopo qualche minuto, rieccolo in linea. «Sì, può chiedere l’indennità se è iscritta alla Gestione separata», dice. «La domanda deve essere presentata alla sede territoriale dell’Inps, allegando i certificati richiesti». «Ma ho letto che posso presentare la domanda online!». «Un attimo solo, chiedo…». Attesa. «Ah sì, può anche presentarla online», risponde. «E per sapere quanti soldi prenderò?». «Sarà la sede Inps di competenza a fare i calcoli, noi non possiamo saperlo». Ma con le sedi locali non puoi parlare. E non resta che aspettare.

Comincia così, tra informazioni vaghe e confuse, il percorso per la richiesta dell’indennità di maternità di una lavoratrice autonoma. Traduttrici, grafiche, libere professioniste hanno diritto alla maternità per i due mesi precedenti la data del parto e i tre mesi successivi. Con l’obbligo di astenersi dal lavoro per cinque mesi (clausola che lo Statuto del lavoro autonomo ancora in discussione vorrebbe cancellare). Tradotto: in quei mesi non puoi fatturare. Con il rischio di perdere soldi e clienti. Intanto, anche se non guadagni, versi i contributi, sperando che saranno in parte coperti dalla maternità. Ma se non sei tu a reclamare quei soldi, nessuno te li darà.

Spesso comincia un percorso a ostacoli che porta molte donne a rinunciare all’indennità di maternità. Molte domande vengono respinte magari per banali errori tecnici, ma c’è anche molta ignoranza da parte degli operatori, che spesso non sono formati sulle procedure che riguardano gli autonomi

La domanda per l’indennità di maternità, che si può presentare sul sito dell’Inps, prevede due tappe. Nella prima fase si indica la data presunta del parto. Poi, entro 30 giorni dalla nascita del bebè, si modifica la richiesta con la data effettiva e da allora può partire la liquidazione del dovuto. Ma non sempre fila tutto liscio. Anzi. Spesso «comincia un percorso a ostacoli che porta molte donne a rinunciarci», spiegano da Acta, l’Associazione dei professionisti indipendenti. Con il pancione e un figlio in arrivo, fare la spola tra gli sportelli dell’Inps non è l’ideale. E davanti all’incertezza, in tante preferiscono continuare a fare qualche lavoro. «Molte domande vengono respinte magari per banali errori tecnici, ma c’è anche molta ignoranza da parte degli operatori, che spesso non sono formati sulle procedure che riguardano gli autonomi». E così capita di sentirsi anche rispondere che un’autonoma non ha diritto alla maternità. Le segnalazioni di errori, attese estenuanti e complicazioni burocratiche arrivano di continuo nella posta di Acta.

C’è chi ha atteso anche più di nove mesi dalla nascita prima di ricevere l’assegno. Chi ha spento la prima candelina del bambino senza aver visto un euro. E chi racconta di esser stata costretta a presentarsi allo sportello dell’Inps, per la terza o quarta volta, anche a dieci giorni dal termine della gravidanza, dopo aver chiesto invano informazioni al call center dell’Inps. Salvo poi sentirsi rispondere: “Ma le libere professioniste di solito guadagnano molto di più per occuparsi di queste cose”. Senza sapere che il compenso medio delle partite Iva iscritte all’Inps supera di poco le 700 euro. «Non è che la legge non mi tuteli come lavoratrice e mamma», scrive Elena, ma «gli enti pubblici e l’Inps in primis mettono in pratica un’interpretazione tutta loro della legge, a sfavore ovviamente di noi lavoratrici».

Per le mamme partite Iva, figlie di uno Stato minore rispetto alle colleghe dipendenti, anche il naturale orologio biologico si deve adeguare alle circolari dell’Inps

«È come un muro enorme difficile da scalfire. E tutto questo accade mentre sei incinta», racconta Cristina, traduttrice. «Fai domanda online sul sito e aspetti. Nel frattempo nessuno ti dice nulla. Non hai modo di capire come avvengono i calcoli e quale sarà la cifra. Dopo dieci chiamate con dieci risposte diverse, in una delle quali ho dovuto spiegare io la normativa all’operatore del call center, se non fosse stato per mio marito ci avrei rinunciato».

Il problema è che, rispetto ai calcoli che Cristina aveva fatto a casa da sola (la norma prevede una somma dell’80% del reddito medio giornaliero dei 12 mesi precedenti), l’accredito arrivato era di circa 300 euro in meno. Inutile chiamare il contact center per capire le modalità di calcolo. E gli indirizzi email dai quali si ricevono le informazioni non prevedono possibilità di risposta. «Con molta fatica siamo riusciti ad avere un appuntamento all’Inps», racconta. «Mio marito ha preso una giornata di ferie e con una bambina di due mesi, d’inverno, ci siamo messi in macchina. Arrivati lì, scopriamo che il funzionario è in ferie. E la responsabile non poteva accedere al computer del funzionario. Ci hanno detto di aspettare una chiamata». La chiamata non è mai arrivata. Lei ha anche inviato al funzionario un documento con i suoi calcoli. Ma nessuno le ha mai detto quale sarebbe stata la cifra della sua indennità di maternità. Dopo qualche mese e innumerevoli proteste, all’improvviso si è vista accreditare un conguaglio.

Tutto è bene quel che finisce bene. Ma anche le modalità di calcolo risultano alquanto astruse. Se la somma dell’indennità è l’80% del reddito dell’ultimo anno, a parte rari casi, una parte cade nell’anno di nascita e una parte in quello precedente. Oltre a dover aspettare la dichiarazione dell’anno in corso, tenendo conto che il reddito prodotto nell’anno di nascita del bambino non è mai tanto alto per una lavoratrice mamma, anche l’ammontare del congedo sarà più basso. In passato si calcolava il reddito maturato nei due anni precedenti, ma con una circolare Inps del 2010 il periodo di riferimento è stato ridotto a un solo anno.

Tant’è che essendo per natura le partite Iva costrette a tenere sempre la calcolatrice in mano tra fatture, Iva e contributi da pagare, da Acta suggeriscono anche quale sia il periodo ideale per far nascere un figlio in modo da massimizzare i contributi: tra la seconda metà di settembre e la prima metà di marzo. Per le mamme partite Iva, figlie di uno Stato minore rispetto alle colleghe dipendenti, anche il naturale orologio biologico si deve adeguare alle circolari dell’Inps.

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