TaccolaLa grande bolla: ecco come l’economia globale può collassare di nuovo

Il rapporto tra prezzo delle azioni e utili delle società dell’indice S&P 500 è altissimo, pari ai valori del 2008 e del ’29. Potrebbe esserci una bolla pronta a scoppiare. Oggi il rischio maggiore viene dalle elezioni in Francia. Ma la variabile chiave è il rialzo dei tassi Usa

Chiamatela pure grande bolla, se vi piace il nome. L’idea che l’enorme euforia in Borsa di questi mesi nasconda ancora una volta una grande crisi si sta facendo spazio nelle menti degli osservatori, così come quelle degli operatori. Anche se tutto, all’apparenza, sta andando bene. Wall Street ha segnato record su record. I prezzi delle azioni sono mediamente altissimi, con alcuni settori, come quello energetico, farmaceutico, digitale e della difesa (per tacere della nicchia del settore carcerario) schizzati a livelli stratosferici. Chi a dicembre avesse comprato per 7.650 dollari i junk bond della società privata nel settore delle prigioni Willacy County, vendendole oggi avrebbe un profitto di 60mila dollari (lo ha raccontato anche il vicedirettore del Sole 24 Ore Alessandro Plateroti). I valori erano già alti, da quando è stato eletto Donald Trump sono saliti di altri 3mila miliardi di dollari. Merito delle aspettative per un’ulteriore accelerazione dell’economia, e quindi degli utili delle imprese, dovuta alla combinazione di minori tasse sulle imprese e sulle persone fisiche e di una maggiore spesa per infrastrutture e settore militare. Make America Great Again ha fatto molta presa a Wall Street. Ma c’è un ma, come sempre in questi casi. È il valore del rapporto tra prezzo delle azioni e utili, noto come Shiller PE Ratio dal nome dell’economista Robert Shiller. Se si prende l’indice S&P, si scopre che il rapporto oggi è di circa 28, contro un una media sul lungo periodo di 16. Curiosità: è un livello simile a cui scoppiarono le bolle del ’29 e quella del 2008. Un’altra bolla clamorosa, quella delle Dot Com del 2000, avvenne quando i valori erano ancora superiori, a quota 44 (si veda il grafico qui sotto).

E quindi? Siamo in un periodo di crescita irrazionale e, soprattutto, ci dobbiamo aspettare lo scoppio di una bolla? «La premessa è che predire una bolla è difficile e in più predire il momento esatto dello scoppio è impossibile», risponde Angelo Meda, responsabile azionario di Banor Sim. Tuttavia qualche ragionamento in più si può fare. Intanto andando a guardare i dati di altri fattori, come il rapporto tra prezzo e utili attesi e tra prezzo e cash flow. «Comunque la si guardi, i dati dicono che la Borsa americana oggi è molto cara», commenta Giorgio Arfaras, direttore della Lettera Economica del Centro Einaudi. In una situazione del genere, aggiunge, ci sono due possibilità. O gli investitori considerano razionali i valori del mercato. Oppure gli operatori si comportano come degli “speculatori razionali”: non credono che ci siano dei reali motivi alla base dei valori alti, ma continuano a vendere finché non trovano qualcuno disposto a comprare. «La storia delle ultime bolle insegna che a un certo punto, anche senza un motivo evidente, non si riesce più a trovare un compratore – aggiunge Arfaras -. A quel punto inizia una discesa che diventa improvvisamente rapidissima perché intervengono gli scopertisti», cioè chi effettua vendite allo scoperto scommettendo sul calo dei prezzi. Il sentiment degli operatori è riassunto da Alberto Gallo, a capo delle Strategie Macro di Algebris Investments, e Portfolio Manager del fondo Algebris Macro Credit Fund (UCITS). «Soprattutto in America è l’euforia a guidare il mercato e gli operatori stanno diventando più cauti. È possibile, come in tutte le fasi di irrazionalità, che questa persista. Detto questo, proteggersi per un eventuale storno è prudente e oggi costa poco, poiché la volatilità e il costo della protezione sono ai minimi».

Il punto fondamentale da indagare è se ci sia una razionalità dietro alla situazione attuale. Con una premessa: «Anche in occasioni delle crisi precedenti furono trovate giustificazioni razionali di quel che stava accadendo – aggiunge il direttore della Lettera Economia del Centro Einaudi -. Nel 2000 si diceva che il digitale stava cambiando il mondo e che quelle aziende avevano parametri prezzo/utile diversi dalle altre: era vero, ma solo in parte, e infatti la bolla scoppiò. Nel 2008 si parlava di un’era “new normal”, caratterizzata da una crescita senza inflazione e senza scossoni. Ma la crisi dei mutui, sottovalutata, aprì gli occhi».

Sull’indice S&P 500 il valore del rapporto tra prezzo delle azioni e utili oggi è di circa 28, contro un una media sul lungo periodo di 16. È un livello simile a cui scoppiarono le bolle del ’29 e quella del 2008

E oggi? Oggi ci sono due fattori che giustificano i prezzi alti. Il primo è che le aziende americane da molti anni fanno utili e ne fanno sempre di più. «Oggi l’utile medio per azione atteso per il 2017 dell’indice S&P 500 è di circa 130 dollari, il 30% in più del valore di picco del 2007», spiega Angelo Meda. C’è quindi una base nell’andamento dell’economia reale. Non solo. Un altro elemento di razionalità è il fatto che i tassi di interesse sono bassi da molti anni. Gli investitori trovano pochissima convenienza nel comprare titoli di Stato e si riversano sul mercato azionario. «Se si guardano i valori storici, la Borsa americana è carissima. Se si guardano i valori relativi rispetto ai rendimenti delle obbligazioni, è meno cara», aggiunge il responsabile azionario di Banor Sim. Detto in altri termini, era più preoccupante lo scenario passato in cui il rapporto prezzo/utili era molto alto nonostante i tassi di interessi fossero molto superiori. Ma un’altra parte della storia ha a che fare con le aspettative, di cui sopra. Come vivono gli operatori questa fase? «Per ora i mercati stanno credendo alle promesse di Trump – stimolo fiscale, investimenti in infrastrutture e taglio spesa pubblica – sebbene la formula non sembri realizzabile», risponde Alberto Gallo. Oggi, aggiunge Meda, «in realtà il mercato dà già per scontato che non tutte le promesse di Trump potranno essere mantenute, perché superare il tetto del debito, cosa che potrebbe avvenire già il prossimo maggio, comporterebbe un passaggio in Senato dall’esito non scontato».

In una fase come questa, diventa fondamentale capire da dove possa arrivare un possibile innesco dello scoppio della bolla. Gli “assassini” possibili sono diversi: il mancato raggiungimento delle promesse da parte di Trump. Un aumento troppo brusco dei tassi di interesse da parte della Fed. Un elemento di instabilità politica, che oggi è soprattutto indicato nelle elezioni europee in Francia e nei rapporti Usa-Cina. Ci sono poi la gestione della Brexit e l’accentuarsi di tensioni sui Paesi emergenti oggi sottovalutate, a partire dal Brasile. Si arriva fino alle «debolezze legate all’eccessivo indebitamento degli Stati e dei privati, in quest‘ultimo caso soprattutto se si ragiona di Cina», sottolinea il direttore della mensile economico Valori, Andrea Di Stefano, che vede tra gli altri rischi all’orizzonte anche un incidente che potrebbe derivare dalla deregulation promessa e in parte già attuata dall’amministrazione Trump in campo finanziario. «L’abolizione di alcuni pezzi del Dodd-Frank Act ricostruisce alcuni mattoni della casa del rischio. Se tra 12-18 mesi emergesse un nuovo caso Lehman Brothers, significherebbe lo scoppio della bolla», aggiunge Di Stefano. Tra i più critici di questo smantellamento c’è stata Janet Yellen, la presidente della Fed.

Lo scenario peggiore è quello in cui l’economia e l’inflazione crescono in maniera automatica, costringendo la Fed a intervenire in modo aggressivo, ma al contempo, le politiche di Trump deludono le aspettative dei mercati. Sarebbe una doppia ondata che porterebbe allo sgonfiamento di Wall Street. A quel punto comincerebbe la speculazione al ribasso

I due indiziati principali, su cui convergono le analisi degli interlocutori sentiti da Linkiesta, sono però due: le elezioni francesi, che porterebbero a una messa in crisi di tutto il progetto Euro. E proprio le mosse di Janet Yellen. Qui il ragionamento si salda agli effetti della politica economica di Trump. Per quanto sembri strano, uno dei rischi è che possa avere troppo successo, che perciò spinga al rialzo l’inflazione verso il 3% e costringa la Fed ad attuare una politica di rialzo dei tassi più veloce del previsto, per tutelare il potere di acquisto dei cittadini statunitensi (che in parte compenserebbero con gli aumenti salariali) e quindi i consumi. Se i tassi dovessero salire troppo velocemente (una soglia considerata critica è quella del 3%) questo significherebbe gli investimenti si sposterebbero molto velocemente dal settore azionario a quello obbligazionario. «È il rischio maggiore, per questo guardiamo l’andamento dei bond Usa più volte al giorno», aggiunge Meda. «Paradossalmente, uno scenario in cui il Pil Usa crescesse del 2,8% sarebbe molto più rassicurante, per la tenuta della Borsa, di uno in cui il Pil salisse del 3,3 per cento, visto il potenziale impatto sui tassi». Gli occhi sono quindi puntati su Janet Yellen. «La Fed partirà col primo rialzo dell’anno il 15 marzo, ma rimane indietro rispetto a inflazione e disoccupazione – commenta Gallo -. La cosa più importante è se ci saranno molti altri rialzi consecutivi, che potrebbero sgonfiare il mercato. Noi ci aspettiamo due o al massimo tre rialzi quest’anno, sufficienti a creare uno storno ma non una crisi».

C’è uno scenario ancora peggiore, aggiunge Arfaras. Quello in cui l’economia e l’inflazione crescessero in maniera automatica, costringendo la Fed a intervenire in modo aggressivo, ma al contempo le politiche di Trump deludessero le aspettative dei mercati. Per esempio, se nella spese per infrastrutture dovesse venire meno l’apporto previsto dei privati. A quel punto la spinta verso una discesa del valore delle azioni sarebbe doppia. Una vera ondata, che farebbe tra le sue prime vittime gli investitori nei fondi Etf, che replicano l’andamento degli indici. Questa caduta potrebbe essere compensata da altre cartucce nelle mani di Trump: come il rientro dei capitali favorito dai paradisi fiscali delle corporation accompagnato da una tassazione molto bassa. «Questo – spiega Arfaras – favorirebbe un acquisto delle azioni proprie da parte delle società (operazioni di buyback, ndr) che ridurrebbe l’impatto dell’aumento dei tassi».

A chi guarda i mercati non resta che salire sulla coffa dell’albero maestro, alla ricerca di segnali di tempesta. «Uno dei parametri che stiamo monitorando è quello dei mancati pagamenti nel settore del credito al consumo e dei finanziamenti per le auto – conclude Meda -. Ci sono dei campanelli d’allarme da cogliere, anche se non clamorosi. Il vero problema si avrebbe se ci fossero nuovamente sofferenze sul fronte dei mutui per le abitazioni». È il segnale non colto nel 2008, che oggi non ci si può permettere il lusso di ignorare.

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