«Meno politica» è uno slogan scemo, e sta rovinando l’Europa

Inseguire i populismi sul loro stesso terreno sta portando risultati disastrosi, non solo in Gran Bretagna, ma anche, lo vediamo benissimo, in Italia. Ecco perché

La Gran Bretagna non è l’Ungheria, non è la Polonia, non è uno dei nuovi Stati del Baltico dell’Est ma la più antica e apparentemente solida delle democrazie continentali, e però rischia di entrare nei manuali di scienze politiche come il primo Stato demolito dal populismo, anzi dal dissennato inseguimento del populismo. L’ultima notizia è la possibilità che la Scozia indica un nuovo referendum per staccarsi da Londra e restare in Europa. Ma anche l’Irlanda del Nord è in subbuglio, e rilancia l’unificazione con Dublino dopo le recenti elezioni che hanno visto il Sinn Fein sfiorare la maggioranza. Insomma, il sasso a cui diede un calcio David Cameron con la consultazione sulla Brexit per compiacere chi gridava «Parola al popolo!», dopo essere diventato valanga potrebbe generare addirittura uno tsunami separatista e sbriciolare un assetto pluricentenario.

Il caso inglese va raccontato bene perché l’inseguimento ansiogeno dei nuovi populismi è una cifra anche italiana. Angelo Panebianco, in un recente editoriale sul “Corriere”, ne ha parlato come di una «resa culturale» al Cinque Stelle, ma il fenomeno è molto più largo e non chiama in causa solo il movimento di Beppe Grillo ma tutta la scombinata retorica dei populismi.
Ci sono cose grandi e piccle, ormai, che la politica fatica a dire terrorizzata dall’impopolarità. Che molte colpe attribuite all’Europa sono in realtà delle classi dirigenti nazionali. Che l’allarme immigrazione è sovradimensionato. Che la democrazia a costo zero non esiste. Che «Meno politici» è uno slogan scemo. Che se uno spara alla schiena a un ladro disarmato e in fuga deve essere processato. Che lo sciopero selvaggio dei tassisti è sbagliato e fuori da ogni regola. Che la xenofobia mina la convivenza.

Ci sono cose grandi e piccole, ormai, che la politica fatica a dire terrorizzata dall’impopolarità. Che molte colpe attribuite all’Europa sono in realtà delle classi dirigenti nazionali. Che l’allarme immigrazione è sovradimensionato. Che la democrazia a costo zero non esiste. Che «Meno politici» è uno slogan scemo

Antieuropeismo, allarme securitario, odio per la Kasta. Anche in Gran Bretagna cominciò così. I temi dell’Ukip di Nigel Farage, alle Europee del 2014, erano più o meno un impasto delle parole d’ordine che in Italia appartengono a M5S e Lega. David Cameron anziché respingerli come spazzatura, inseguì quegli slogan, li metabolizzò, ingaggiò una contesa per riannettersi l’elettorato Ukip sul suo stesso terreno. Perse clamorosamente. La sua idea di conquistare il popolo dando al popolo la scelta diretta sulle relazioni europee finì in Brexit. Poi la Brexit, in mano alla nuova premier Theresa May, fu tradotta in Hard Brexit, sempre sulla base dello stesso principio: correre dietro agli ultras. E la prospettiva dell’Hard Brexit, cioè di un addio all’Europa netto e senza mediazione, è finita così, come vediamo in questi giorni: con la Scozia che riaccende la miccia separatista perché in questo tipo di percorso non ci vuole stare.

La sindrome inglese agisce tra noi più o meno con le stesse modalità e gli stessi disastrosi risultati. Le forze politiche “tradizionali” mettono tutta l’anima nell’inseguimento di Lega e Cinque Stelle , dalle bizzarre proposte di Silvio Berlusconi sulla doppia moneta alle presunte svolte securitarie del Viminale. Non ne ricavano alcun risultato: nei sondaggi non crescono di una briciola, ne’ riescono in alcun modo ad intaccare il bacino elettorale dei loro avversari. Però l’inseguimento delle forze populiste determina comunque risultati: un costante peggioramento del dibattito, scelte pubbliche sbagliate, confusione sulle vere ragioni della crisi, moltiplicarsi di provvedimenti demagogici finalizzati soltanto al consenso.

L’inseguimento delle forze populiste determina comunque risultati: un costante peggioramento del dibattito, scelte pubbliche sbagliate, confusione sulle vere ragioni della crisi, moltiplicarsi di provvedimenti demagogici finalizzati soltanto al consenso

Così il “racconto populista” vince e cambia la storia pur senza avere i numeri per prendere il potere, o addirittura quando è lontanissimo da avere questi numeri. Alle Europee del 2014 Nigel Farage prese il 30 per cento, e fu senz’altro un gran successo. Ma con i meccanismi elettorali britannici era ben lontano dal poter aspirare alla stanza dei bottoni. Eppure senza mai governare, senza mai arrivarci nemmeno vicino, ha determinato le sorti del Paese assai più degli inquilini di Downing Street: gli è bastato gridare, e lasciarsi inseguire, e restare a guardare quel che succedeva. Più o meno quel che rischia di succedere da noi.

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