Esistono diversi modi per commentare un torneo di calcio. Il più diffuso è certamente quello di valutare l’aspetto tecnico di una squadra e su questo provare a trarre delle conclusioni: parliamo cioè dei mitici pronostici che ci divertiamo a fare, con metodo assolutamente scientifico. Prendiamo la Champions League, ad esempio. Questa edizione vede il Bayern Monaco favorito, se non altro perché la squadra è allenata da un tecnico come Carlo Ancelotti, in grado di vincerne tre da allenatore con due squadre diverse e a caccia del record assoluto. Certo, ci sono anche le tre spagnole: il Real Madrid è campione in carica, l’Atletico Madrid è stato due volte finalista tra il 2014 e il 2016 e il Barcellona ha ribaltato l’esito degli ottavi di finale con una remuntada storica ai danni del Psg. E via discorrendo.
Insomma, già solo nel cercare di fare un pronostico tra chi è favorito e chi no, abbiamo che ci piaccia o no creato una divisione all’interno del gruppo tra chi può, chi potrebbe e chi non può. Una divisione che si può operare cercando altri modi per commentare un torneo di calcio. Restando all’attuale Champions League, giunta ai quarti di finale, si può analizzare il gruppo delle migliori otto dal punto di vista economico.
Nel farlo, si possono scoprire cose interessanti. Ad esempio, che avere potere di spesa sul mercato conta, ma fino a un certo punto. Ad esempio, se guardiamo la classifica dei fatturai dei club del Vecchio Continente, come quella stilata ogni anno da Deloitte, notiamo come il campo rispecchi solo in parte la ricchezza delle loro casse. Già solo la prima posizione smonta l’equazione ricco uguale vincente: oltre 600 sono stati i milioni di ricavi registrati dal Manchester United (689 in tutto), che però la Champions League la guarda dal divano: è favorita sì in Europa, ma nella vecchia Coppa Uefa (oggi Europa League). I Red Devils vivono della strategia di valorizzazione del brand intrapresa negli anni Novanta e che nel tempo regala ancora frutti ricchi: la sola Adidas spende 90 milioni di euro per essere sponsor tecnico del club. Certo, sul club pesa l’assenza di Alex Ferguson sulla panchina del club: prima l’esperimento Moyes, quindi la presenza del più esperto Van Gaal non ha dato risultati adeguati alla bacheca del club.
Anche i ricchi piangono, ma non loro: Bayern, Real, Barça
Scorrendo le altre prime posizioni, la ricchezza dei club si avvicina però di più alla loro forza sul campo. Tra la seconda e la quarta posizione troviamo nell’ordine Barcellona (620 milioni di euro di ricavi nel 2015/16), Real Madrid (altrettanti ricavi) e Bayern Monaco (592 milioni). Parliamo di tre club che hanno potuto non consolidare, ma addirittura rafforzare la propria potenza economica, diventando di fatto delle vere e proprie multinazionali, in alcuni casi gestite da aziende di questo tipo. Il caso del Bayern Monaco è quello più eclatante, in questo senso. Non solo il bilancio 2015 della società controllante dello stadio, la Allianz Arena München Stadion GmbH, si è chiuso in attivo per 8,6 milioni di euro. La società ha come socio unico la FC Bayern München AG, società che fa capo al Bayern Monaco e al cui tavolo siedono tutte multinazionali. In Germania vige un sistema a due: le società vengono amministrate da due consigli, ovvero uno di controllo e uno di sorveglianza. Nel secondo, che è presieduto dalla controllante al 75% della FC Bayern München AG (la FC Bayern München eV) ci sono i rappresentanti di Adidas, Audi, Allianz Deutschland, Deutsche Telekom e Unicredit. Ma non sono solo loro a contare, ovviamente: in Germania vige la regola del 50%+1 che vuole la maggioranza dei club in mano all’azionariato diffuso, cioè ai soci come in Spagna. Ovviamente, la presenza della seconda metà del club di partner strategici come le multinazionali citate ha permesso al club non solo di chiudere per più anni di seguito i conti in utile, ma di avere una strategia globale: vale la pena ricordare che il Bayern ha un ufficio di rappresentanza negli Usa e che anche in Asia il club è fortemente presente. Con una forza del genere, è più facile poter spendere.
In Spagna Real e Barça sono in mano ai soci, guidati da un presidente eletti che presenta programmi e garanzie economiche. Ma non si può solo pensare che sia la tassazione spagnole agevolata per le polisportive ad avvantaggiarle. Ma è la loro strategia a farlo. Una strategia sempre rivolta al futuro. Un esempio su tutti è quello che riguarda il bilanciamento tra le voci di ricavo. In parole povere, sia Real che Barça hanno stadi famosi e riconosciuti in tutto il mondo, divenute nel tempo mete turistiche e non solo teatri di gare di calcio. Eppure i ricavi da matchday del Camp Nou pesano solo per il 19% del fatturato totale dei Blaugrana, mentre il Bernabeu poco più, per il 21%. E mentre in Italia a pesare di più sono invece i diritti tv, per le due big sono il comparto commerciale: il Barcellona ricava il 48% del totale da sponsorship e sfruttamento del brand, il Real Madrid il 42%. Per non cristallizzare tali voci, i club si sono mossi di conseguenza e hanno presentato progetti, già approvati, per la ristrutturazione dei propri stadi: un modo per aumentarne i ricavi, tra naming rights, spazi commerciali e biglietti da vendere a un pubblico invogliato da un impianto più confortevole. Anche qui, come nel caso del Bayern, il potere economico regala ai due club una maggiore possibilità di spesa, ovvio.
Dal quasi tracollo alla rinascita: i casi di Atletico e Borussia
Questi tre club fanno parte del gruppo delle forti sul campo e nei bilanci. Altri club invece hanno sfruttato la programmazione, non potendo contare su capitali ingenti e fatturati solidi. Sia in Spagna che in Germania ci sono gli esempi di Atletico e Borussia, arrivate ai quarti di questa Champions dopo anni di programmazione e abilità manageriale. I gialloneri di Dortmund qualche anno fa erano addirittura a un passo dal fallimento. Maledetta fu la Champions vinta nel 1997: il club non riuscì a gestire i fasti della vittoria, spendendo e spandendo, fino a quando non si ritrovò con un passivo di 140 milioni. Tagliò così gli stipendi del 20% ai giocatori, vendette il mitico Westfalenstadion e si abbassò all’umiliazione più grande: chiede un prestito al Bayern per poter sopravvivere. A dirla tutta, fu l’intero calcio tedesco a mobilitarsi per salvare il gialloblu. Ci pensò anche Morgan Stanley, con un finanziamento, a far ripartire il club. Cambio di proprietà, di dirigenza, di strategia. I tempi dello scialacquamento insensato erano finiti, bisognava ricostruire. Come? Partendo dai giovani. Una mano è arrivata anche dalla Federcalcio tedesca, che con il ‘Progetto 2000’ ha finanziato 366 scuole calcio dopo il tracollo della Nazionale all’Europeo di Belgio-Olanda. Il metodo del governo del calcio è stato semplice: io ti do i soldi, ma devi rientrare in certi parametri che io fisso, altrimenti sei fuori. Puntando quindi su giovani del vivaio (Goetze) e scouting (Lewandowski) il club ha generato plusvalenze, ma al contempo ha diversificato i ricavi grazie all’abilità di un management che ha fatto del Westfalen uno stadio famoso e del club un brand capace di generare 140 milioni di euro su 240 totali.
Discorso simile a quello dell’Atletico, che pur senza aver rischiato il fallimento ha dovuto però fronteggiare una situazione finanziaria non brillante. Inizialmente, affidandosi ai fondi d’investimento, che ne hanno ridimensionato i possibili ricavi (l’esempio della cessione di Falcao al Monaco su tutti). Ma due finali di Champions più due Europa League e una Liga vinte dal 2010 ad oggi non sono un caso. E oggi il club, che si è affidato anch’esso allo scouting di giovani come Saul (preso a 13 anni dalla cantera del Real Madrid), Koke e Gabi e ha dosato le risorse da spendere acquistando giocatori chiave come Godin (8 milioni), Diego Costa (1,5 milioni dal Braga) e Miranda arrivati a parametro zero dal Brasile, ha potuto ottenere risultati anche economici. Come? Puntando sui soldi dei nuovi mercati – come la sponsorship dell’Azerbaijan sulle proprie maglie negli anni passati – e oggi sta lavorando finalmente sul nuovo stadio della Peineta, che porterà il nome di Wanda, il gruppo cinese che ha acquistato Infront ed è guidato da Wang Jianlin, entrato un paio di anni fa nell’azionariato del club acquistandone il 20%.
Nessuna favola, nemmeno in un Principato
Che il Leicester non fosse una favola, lo sapevamo già: bastava guardare i numeri del bilancio. A cominciare dall’impegno finanziario messo in campo dalla proprietà thaliandese: quando dissero un paio di stagioni fa che avrebbero vinto la Premier, ci scappò una risata. Oggi il Leicester è campione d’Inghilterra in carica: Claudio Ranieri, poi esonerato per i cattivi risultati di questa stagione in campionato, ha potuto contare su un club finanziariamente solido. Deve essere questo il risultato voluto dalla Premier League, quando ha impostato una divisione dei ricavi da broadcasting più equa, per evitare diseguaglianze. Grazie ai soldi ricavati dalle dirette tv, il club si è potuto intascare 126 milioni di euro. Una cifra che al momento supera di gran lunga quelle da entrate commerciali (30 milioni) e da stadio (15,4), sebbene entrambe le voci siano in aumento. Anzi, tutte sono in aumento: il club è passato dai 26 milioni di fatturato del 2012 ai 172 dell’ultima stagione. Una situazione che ha permesso al club negli anni di operare alcuni acquisti non solo con una capillare opera di scouting (vedi Vardy su tutti), ma anche potendo contare sulla solidità economica dei proprietari, per mettere le mani su giocatori di livello adatto alla categoria come Kanté, arrivato al Leicester dal Caen per 9 milioni di euro e rivenduto per oltre 35 al Chelsea quest’anno. Una solidità che ha anche permesso alla dirigenza di rinnovare i contratti di diversi giocatori nell’anno che ha portato al titolo: una situazione che ha portato a un’incidenza negative sul risultato netto del 2016, comunque positivo, di 20 milioni di sterline contro le 31 del 2015: dunque il club ha speso, ma ha portato risultati. E con i ricavi da Champions di questa stagione, il club avrà un ulteriore cuscinetto comodo sul quale dormire.
Al Monaco, invece, devono dire grazie al Fair Play Finanziario. L’arrivo del magnate russo Dmitri Rybolvyev aveva fatto sognare in grande: James Rodriguez (45 milioni), Falcao (43), Moutinho (25), Kondogbia (20) sono solo alcuni degli acquisti operati negli ultimi anni. Poi però il club è stato costretto a rivedere qualcosa. Sarà perché i conti della società, nel 2012 erano sotto di 297 milioni di euro e nel 2013 di 345 milioni, chissà. Tanto che nel 2013/14 il club ha fatto la furbata: a fronte di costi del personale di 94 milioni di euro (valore record dell’ultimo quinquennio) e di 51 milioni tra ammortamenti e agenti dei calciatori (altro record), il club ha chiuso sotto di 76 milioni, grazie a 140 milioni messi a bilancio sotto la voce dei ricavi commerciali grazie all’accordo con la Aim Sport. Un accordo che non è servito a evitare la multa della Uefa in materia di Fair Play Finanziario. Il settlement agreement ha costretto il club a rivedere in toto la propria strategia, puntando sulle plusvalenze: 43 e 91 milioni di euro negli ultimi due anni, grazie alle cessioni di Martial e Kondogbia. E altre potrebbero arrivare, grazie agli acquisti mirati di Bernardo Silva e alla crescita di giovani in casa come Mbappé.
E poi c’è la Juve
La Juve è quella che sta nel mezzo. Perché povera non è mai stata, ma ad un certo punto è dovuta ripartire affidandosi al management. Dopo i fatti di Calciopoli, il club ha lavorato per valorizzare il club, attraverso il potenziamento delle voci principali di ricavo (stadio, sponsorship) con una strategia di crescita continua. Lo Stadium nuovo e le future operazioni immobiliari (Continassa) servono non solo a generare nuovi flussi di ricavo, ma anche per rafforzare la solidità finanziaria del club. Il nuovo accordo con Adidas ha contribuito a portare i ricavi commerciali oltre i 100 milioni di euro. E il fatturato è passato in 4 anni da 195 a 341 milioni di euro. Nel mezzo, una finale di Champions League nel 2015. Coincidenza?