Su le gonne e vulve all’attacco. Contro il patriarcato. Contro la sessuofobia. Contro il femminicidio. Contro la reificazione del corpo femminile. Delle manifestazioni (forse sarebbe meglio dire pratiche) di lotta per l’otto marzo, quest’anno tornato a essere “non anniversario ma giorno rivoluzionario”, l’esibizione dei genitali femminili è stata una delle più fotografate, commentate, condivise.
Non che si sia scandalizzato nessuno: le sedici attiviste che si sono “smutandate sull’altare del patriarcato” (il Vittoriano) e le altre cinquanta che l’hanno fatto “per mostrare la loro forza contro il palazzo del potere” (la Regione Lombardia) alla stazione centrale di Milano, hanno fatto al massimo simpatia o antipatia e non paura, quella paura che, secondo Bia Sarasini del Manifesto, questo sciopero globale avrebbe suscitato. Quando si riesce a intimorire “il sistema”, succede quello che è successo a Mosca, dove otto manifestanti sono state arrestate per aver srotolato davanti al Cremlino lo striscione “gli uomini sono al potere da duecento anni, ora basta!”.
La polizia italiana, invece, ha chiuso un occhio anche sugli atti osceni in luogo pubblico e si è mostrata assai più liberale pure di Youtube, che ha censurato i video messi in circolo poche ore prima dell’otto marzo dai collettivi femministi, in cui si offriva lezione pratica su come alzarsi la gonna fino alla testa o fino alle spalle, spiegando che l’ana sumorai è una pratica antica, che affonda le radici addirittura nell’antica Grecia.
È vero: la mitologia racconta di quando Baubò, in alcune versioni un’anziana e in altre un corpo senza testa che parlava dalla vagina, scoprendosi le parti intime, riuscì a strappare un sorriso a Demetra, la dea delle messi, inconsolabile per il rapimento di sua figlia Persefone. Naturalmente, né il mito né l’epica greca hanno mai perseguito la lotta contro “il potere sessuofobico”, ma connotare arbitrariamente la classicità o risalirla per dare maternità nobile ad assunti che le sono posteriori è un vecchio tic culturale.
Certamente, i greci mostravano consapevolezza del potere, magnetico eppure ancestrale, crudo eppure caloroso, tribale eppure universale, della sessualità femminile. Era alla riappropriazione di quel potere e alla sua legittimazione politica che le femministe degli anni Settanta puntarono quando presero a urlare i loro slogan unendo le mani per creare un triangolo che richiamasse la vagina. Con quel gesto, la tirarono fuori dalle mutande, dal pudore coatto, dal sesso riproduttivo, dalla soggezione, dallo stigma e la resero soggetto politico.
Fu un’operazione fondamentale non solo per l’emancipazione, ma soprattutto per rendere chiaro che la sessualità femminile era il punto da cui partire per elaborare la libertà nuova e diversa che le donne chiedevano e che doveva essere parallela a quella, asessuata, dei diritti fondamentali. Durante le sedute di autocoscienza, grazie alle quali le donne elaborarono il “privato è bello” – il congiungere autodeterminazione politica e autodeterminazione privata (“volevamo dare una misura più morale che fisica alla terra”, scrisse Giuliana Ferri in “Un quarto di donna”, 1975) – la scoperta o riscoperta della vagina ebbe un ruolo di primissimo piano.
Oggi, invece, più che come soggetto politico, la vagina viene utilizzata come soggetto militare di una guerra tra sessi di difficile comprensione
Oggi, invece, più che come soggetto politico, la vagina viene utilizzata come soggetto militare di una guerra tra sessi di difficile comprensione (e dal risultato beffardo, se consideriamo che le adesioni maggiori a questo sciopero sono state quelle maschili: un paradosso ben evidenziato da Dario Di Vico sul Corriere della Sera).
Il triangolo che le donne alzavano scendendo in piazza quarant’anni fa era del tutto inattuale, ovvero al di fuori del tempo e delle sue categorie: lì stava la sua rivoluzione.
La vagina non era soltanto un tabù, ma era anche irrilevante (“senza nome, né vezzeggiativo, né letteratura”, scrisse Carla Lonzi): immetterla sulla scena politica fu un’intuizione geniale.
Luce Irigaray, filosofa e psicanalista, contestò in quegli anni le teorie psicanalitiche e lacaniane che, muovendo dall’osservazione dell’evoluzione del simbolo, sistemavano la vagina come passività (un “vuoto da riempire”) e il pene come attività e, per prima, propose di non partire dal simbolico, bensì dalla realtà, dalla quale appariva evidente la derivazione della vita dalla differenza sessuale. Per questo, le donne dovevano conoscersi a partire dei propri genitali, per poter poi riconoscere l’altro. È questo secondo passaggio che Irigaray auspicava: il recente ricorso sboccato, inconsapevole, anacronistico alla vagina che lotta e fa tremare, perché è la vagina delle streghe che “son tornate”, invece, sembra mostrare una deviazione rispetto ad esso, quindi il fallimento del senso originale dell’immissione dello specifico femminile nella lotta politica.La vagina non era soltanto un tabù, ma era anche irrilevante (“senza nome, né vezzeggiativo, né letteratura”, scrisse Carla Lonzi): immetterla sulla scena politica fu un’intuizione geniale. il recente ricorso sboccato, inconsapevole, anacronistico alla vagina che lotta e fa tremare, perché è la vagina delle streghe che “son tornate”, invece, sembra mostrare una deviazione rispetto al pensiero femminile
Certo, sventolare una vagina dentata contro la violenza sulle donne è un modo efficace per uscire da un paradigma vittimista e mostrare, invece, una reattività vivace, agguerrita, accesa. Insomma, una controparte pronta alla battaglia. Da un punto di vista anche pubblicitario e iconico, funziona. Con una riflessione più profonda, invece, è impossibile non chiedersi che senso abbia lottare contro la violenza sulle donne restando dentro una contrapposizione che vuole gli uomini, indistintamente, nemici, visto che quegli uomini, oggi, li si chiama alla lotta femminista e, nella maggior parte dei casi, li si trova ad essa disponibili. In che modo si può costituire un’alleanza inclusiva di uomini e donne sui temi (legittimi, alcuni pure sacrosanti) che la manifestazione dell’otto marzo ha portato in piazza, se s’indulge in uno “streghe vs patriarchi”? In che modo quei colorati, gioiosi ana sumorai recano credibilità a un movimento che, anziché rinascere, ha bisogno di nascere?
“Non tutte le donne hanno un utero” era scritto su molti cartelli. Sulla vulva non sono pervenute delucidazioni. Germaine Greer, che negli anni Settanta fu un’icona del femminismo americano e mondiale, negli ultimi anni è stata bandita da molte università per aver dichiarato che a fare le spese di questa pansessualità indistinta saranno ancora le donne, ridotte a “uomini senza pene”. Solo in questo senso, l’ana sumorai fa ben sperare che dentro quel “desiderio che ci muove” letto su molti striscioni, ci sia anche l’acquisizione della differenza come deriva e approdo di un movimento femminile che sia anche un contributo all’ordine mondiale. Anche in questo senso, però, l’ana sumorai, continua a mostrare una solitudine compiaciuta e triste, poiché “il corpo di una donna non le appartiene mai davvero. In quelle rare circostanze in cui il mio corpo è stato veramente mio, non ho saputo che farmene”. Così ha scritto Alexandra Kleeman nel suo “Il corpo che vuoi” (l’estratto è stato ripreso e pubblicato ieri nella newsletter Futura del Corriere della Sera: tempismo perfetto).
Nel 1991, Jon Avnet portò al cinema il romanzo “Pomodori verdi fritti” di Fannie Flag. La storia: Evelyn, insicura borghese americana, conosce, in un ospizio dove va a far visita alla zia di suo marito, una simpatica vecchietta che prende a raccontarle l’ avventurosa amicizia di due donne dentro l’America del blues e del Ku Klux Klan. Parallelamente, per temprarsi, riacquistare fiducia in sé stessa e rinvigorire il suo matrimonio, Evelyn frequenta un corso pseudo-femminista, dal quale decide di scappare quando le viene dato uno specchietto col quale guardarsi, davanti a tutte le altre, la vagina.
“Non riesco a slacciarmi il bustino!”, sussurra all’insegnante prima di fuggire, mentre tutta la classe ride, spietata. Saranno i racconti della vecchietta dell’ospizio a darle la forza sufficiente per smetterla di servire la cena a suo marito, prendere il piccone e abbattere il muro della saletta dove il signorino era solito rintanarsi per guardare il baseball. Se hai una vecchia amica, una storia da ascoltare, un piccone e un bustino, puoi anche non guardarti nelle mutande per fare la rivoluzione.