Questa faccenda della cattiveria vi è sfuggita di mano, ve lo dico col cuore. Il fatto che se uno dice quel che pensa, senza filtri, consapevole di poterlo fare, vuoi per libertà, vuoi per autorevolezza, e per questo venga scambiato per cattivo fa ridere i polli. Tanto quanto quello che vuole necessariamente una critica positiva figlia di un compromesso, di una marchetta.
Le cose non stanno così, o almeno, non stanno sempre così. La competenza e la credibilità dovrebbero servire da spartiacque tra chi parla per interesse e chi con voce sincera. Il resto son chiacchiere da bar.
Tutto questo per dire che, in un mondo non dico giusto, ma anche solo normale, non dovrebbe essere necessario creare paragoni e contrapposizioni per far passare il bello per bello. Dovrebbe bastare indicarlo perché tutti lo possano vedere e riconoscere come tale. Di più, in un mondo non dico giusto, ma anche solo normale non ci dovrebbe neanche essere qualcuno a indicare il bello, perché il bello dovrebbe essere in evidenza di suo.
Così non è, per cui io, il cattivo di cui sopra, mi ritrovo qui a sottolineare come, in mezzo a tanta bruttezza, c’è del bello, costretto a sottolineare il brutto. Faccenda in cui mi ritrovo sempre più spesso affaccendato, proprio per sottolineare il bello, per accendere un riflettore sul bello, per dire, “cazzo, ma ti sei accorto che c’è del bello?”.
Il bello esiste. E anche il bellissimo. Fatto incredibile, anche da noi. A questo punto, passare a dire che ieri l’altro sono stato in quel magnifico luogo di cultura e spettacolo che il Teatro Ciro Menotti, a Milano, a vedere Bellissime di Syria suonerebbe come un passo falso. Un gioco di parole sciapo, indegno di chi pretende di parlare del bello. Ma questo è. Sono stato al Teatro Ciro Menotti e i miei occhi e le mie orecchie hanno potuto godere per circa due ore del bello. Un fatto questo, raro, e che nello specifico mi ha anche lasciato con un retrogusto amaro in bocca. Ma andiamo con ordine.
Bellissime è uno spettacolo che Syria sta portando in giro ormai da un paio d’anni, mese più mese meno, e che finalmente approda nella sua Milano (lei romana adottata dal capoluogo lombardo), stavolta non solo in compagnia del l’ottimo Tony Canto, produttore, cantautore e chitarrista eccelso, ma a che del l’altrettanto validissimo chitarrista Massimo Germini. Uno spettacolo in cui Syria veste appieno i suoi panni di interprete e decide di fare i conti, pubblicamente, con le sue colleghe, prevalentemente del passato, ma non solo, andando così a delineare una sorta di mappa emotiva della musica leggera al femminile del nostro paese. Partendo da Gabriella Ferri, che le dona agio di tirare fuori tutte le venature romane e romanesche, Syria ci accompagna in una storia di donne, e di donne che hanno cantato tanta bella musica. Donne forti, che avevano voci importanti, da Mina alla Vanoni, dalla Ruggiero a Anna Oxa, dalla Goggi alle sorelle Bertè, da Nada a Paola Turci.
Ecco, la presenza di Paola Turci tra gli spettatori ci ha regalato un momento emozionante, perché Syria, che della Turci è amica e in qualche modo sorella minore, l’ha invitata a sorpresa (per lei e per noi) sul palco per cantare Volo così. Un momento importante, per tanti motivi. Primo, perché sentire due voci così profondamente romane, quasi da stornellatrici, ma anche così squisitamente pop, ha dimostrato ancora una vota, ce ne fosse bisogno, come sia proprio la scuola romana quella che meglio è riuscita a sintetizzare il nostro essere italiani nella musica popolare (a differenza di quella napoletana, imponente ma troppo caratterizzata per non essere storia a se stante, e di quelle dialettali, per loro natura votate al particolare).
Secondo, perché due voci così belle e vive, sia belle che vive, non dimentichiamolo, riconciliano con la musica, in un momento in cui la musica è prevalentemente piatta, anaffettiva, in una parola, anzi in due, brutta e morta. Terzo perché, e qui veniamo all’amaro lasciato in bocca, a vedere queste due artiste lì, sul palco, una padrona di casa, teatrale e sincera anche nel suo non voler recitare le parti scritte, ma leggerle, l’altra ospite, forte di una ritrovata (o forse trovata per la prima volta) sicurezza femminile e rock al tempo stesso, viene da porsi alcune domande sul mercato discografico.
Per dire, Syria è in procinto di uscire, tra marzo e aprile, col suo nuovo singolo e con la raccolta con la quale festeggia i suoi primi venti anni di carriera (in realtà ventuno, visto che il progetto è slittato in avanti). Paola Turci, reduce da uno strepitoso Sanremo, è in uscita a fine marzo con il suo nuovo lavoro di studio, se il pezzo festivaliero ci dice qualcosa, una bomba.
La domanda è, perché due artiste così devono faticare per essere sostenute dalla discografia ufficiale? Da chi, cioè, lavora sul catalogo, sull’arte, sulla musica. Perché Syria ha visto il suo progetto in standby? Perché la Turci è dovuta andare al Festival per vedere finalmente fuori il suo album? Nel mentre, tanto per non risparmiare nessuno, noi per primi, Sergio Sylvistre e Elodie pubblicano il loro secondo lavoro nel giro di nove mesi, manco fosse una tassa. Nel mentre un Marco Mengoni pubblica tre album in tre anni. Nel mentre…
No. Basta.
Questo non è un mondo giusto.
Neanche un mondo normale. Ma non credo, non voglio credere che per raccontare la bellezza di una artista come Syria, sia necessario fare contrapposizioni. La sua voce parla da sola. Parla per lei.
Quello che ci dice, che ha detto a chi era al Ciro Menotti l’altra sera, è che Syria è una signora interprete. Una donna, fresca dei suoi quarant’anni, con un mondo da cantare, un immaginario variopinto da regalarci, capace di fare i conti con le grandi voci del passato e uscirne non solo viva, ma vincente.
Voi accontentatevi delle robetta che escono da Amici, io preferisco vivere.