Achille Bonito Oliva racconta Totò: un artista d’avanguardia, altro che macchietta napoletana

50 anni dalla morte di Antonio De Curtis. Parla Achille Bonito Oliva. Per Totò il sesso non esiste e la morte non esiste. È un genio anaffettivo. Più un filosofo che un attore

Forse la più grande rovina per la figura di Totò è stata la oleografia popolana e napoletana che molti, superficialmente, legano alla sua figura. Totò e la mangiata di pasta in Miseria e nobiltà. Totò truffa se vende il Colosseo al turista e Totò furto che insegna a scassinare ai Soliti ignoti. Totò sentimento in Malafemmena. Totò guitto che fa la marionetta e Totò kitsch che fa filmacci. Totò e dialetto, pizza, mandolino, mamma e mitili (tifosi, magari, sì). Totò insomma, sintesi di luoghi comuni presunti napoletani che poi, in fondo, sono antinapoletani, quasi roba da «Forza Vesuvio lavali tutti».

Luoghi comuni che sono tutte ovviamente sciocchezze, stereotipi di genere (letterario, spettacolare, umano, civile). Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere. Scemenze: a cinquanta anni giusti dalla sua morte (15 aprile 1967) possiamo dire che la cifra di Antonio De Curtis è quella dell’artista contemporaneo puro. Che usa gli stereotipi solo come pretesto per arrivare altrove, verso un’astrazione che ha parecchio a che vedere con certi aspetti del postmoderno. Magari i suoi film invece di andare la domenica dopopranzo su canali satellitari cheap dovrebbero stare nei musei. Magari andrebbero studiati nei corsi di laurea in Estetica. A fare due chiacchiere con Achille Bonito Oliva sembra che si possa dire questo. Un comico, Totò, ma anche e soprattutto un pensatore. Astratto. Scostante. Con tratti di incorporeità. Tutto calato nel linguaggio. Bonito Oliva, che è stato l’inventore del movimento della Transavanguardia, ha dedicato a Totò documentari, pubblicazioni, mettendone appunto in evidenza la contiguità con l’avanguardia. Niente spaghetti, e niente mandolini.

Perché ha definito Totò il “Socrate dalla mascella deragliata?”
Perché Totò è un pensatore, col fisico adatto. La mascella deragliata è dovuta a un pugno che ebbe da ragazzo, e che gli ha dato un aspetto pronto per il ritratto. E poi c’è la parola, che lo aiuta a deragliare, con l’uso di uno slogan che è già tutto dadaista: “A prescindere”

Per Totò qualsiasi cosa è “a prescindere”…
L’”a prescindere” di Totò corrisponde al ready made di Duchamp: sottrae l’oggetto quotidiano all’uso funzionale, e lo sposta nello spazio della contemplazione estetica. Per Duchamp la ruota della bicicletta diventa come la “o” di Giotto. L’orinatoio lo chiama fontana, a dimostrazione che spostando l’oggetto cambia la funzione, e cambia l’identità. Come Duchamp introduce nell’arte la possibiità di nominare l’oggetto e renderlo estetico, Totò parte dal luogo comune della parola, lo sospende, riuscendo a dargli un’aura metafisica. Anzi direi alla Totò: “metafisica e metà no”.

“A prescindere” usato così sembra un a priori: nientemeno che l’incondizionato. “Metà no” perché è perfetto cazzeggio linguistico comune…
Ma è un’espressione che serve ad abolire il dialogo.

Perché?
Penso al dialogo di Platone, e a quelli di Totò e Peppino. In realtà quelli di Totò sono dei monologhi. L’”a prescindere” è il modo di sospendere l’altro, l’interlocutore, il luogo comune.

Un Totò antidialettico?
Ma che apre al senso nuovi spiragli. Crea significanti, non significati. I significati non ci sono.

Quindi un Totò allergico a legame “morale”, “etico”, tra parola e azione.
Lui lavora sul principio di irresponsabilità. La parola si può sempre negare.

E tutto questo, che bordeggerebbe il ’900 più sperimentale, nasce invece dal popolare?
Totò non ha fatto altro che riappropriarsi di quello che l’avanguardia aveva rubato al popolare. Già i surrealisti, per creare un rapporto tra arte e vita, avevano saccheggiato l’avanspettacolo. Pensiamo al Cabaret Voltaire a Zurigo. Negli anni ’50, del tutto inconsciamente, comici come Rascel col surrealismo e Totò col dadaismo si riappropriano di qualcosa di cui erano stati espropriati dalle avanguardie storiche. E negli anni ’50, partendo dal basso, riutilizzano quegli elementi.

Ha fatto un documentario con gli spezzoni dei film in cui Totò parla di arte. Dobbiamo prenderlo per un critico d’arte attendibile?
Ovvio che sì. Da noi l’arte è stata sempre figurativa, e da noi arte astratta vuol dire assenza di immagine. Pensi alla scena di Totò scultore: Castellani gli chiede cos’è la scultura. “Madre col bambino che piange” risponde Totò. Ma non si vede niente. “E il bambino perché piange?” “Perché la madre non c’è”. “E la madre dov’é?” “A cercare il bambino”. Arte “assenteista”. La chiama Totò.

Tutto torna.
E fa il direttore d’orchestra con i fuochi d’artificio. Ed è proprio Depero. Ed è proprio l‘intonarumori di Russolo.

E tutto questo è coltissimo, ma del tutto ingenuo, o “inconscio” come dice lei. Non c’è un’elaborazione teorica?
Ma no, tutto avviene “a sua insaputa”, ben prima di Claudio Scajola. Le avanguardie sono figlie di una filosofia dell’arte, Totò no. È come una bella donna che non sa di esserlo, ma è talmente bella che dobbiamo arrenderci. Tutti. Il suo è un esproprio proletario ai danni delle avanguardie che avevano espropriato il popolare.

Enzo Moscato dice che Totò appartiene alla santità, alla taumaturgia. Questo elemento irrealistico ha qualcosa di soprannaturale?
Certo, è l’humus di un territorio che ha una cultura pagana. Greca. Romana. E attraverso il Medioevo entra in scena il corpo (la vediamo ancora in Benigni). Totò sa usare anche questo, e poi entra in scena la parola. Poi c’è un rapporto tremolante con la morte, a Napoli. I morti forniscono i numeri. Sono i consulenti dei vivi. E Totò si fa il funerale da solo, da vivo. Tutta la cultura meridionale riporta la morte in vita.

La morte non è un fatto così inusuale o spaventoso.
A Napoli c’è il “consòlo”. Il pranzo di consolazione quando muore qualcuno, ricco e sontuoso come un pranzo di matrimonio. In quanto i vivi debbono rimanere in vita, e la morte è l’inizio di qualcosa.

E questo lo sappiamo. Ma nel caso di Totò?
Duchamp ha fatto scrivere sulla sua tomba: “D’altronde sono sempre gli altri che muoiono”. Perché chi è vivo va al cimitero. Chi muore è l’altro. E io, in un dialogo che ho scritto, tra Duchamp e Totò gli faccio dire che muoiono sempre gli stessi. Apra un’enciclopedia: Giulio Cesare e gli altri. La morte delle celebrità è quella che scandisce il tempo.

Ma torniamo a bomba, cioè a Totò. Il suo rapporto con la morte.
’A livella è una delle poesie più brutte che abbia mai letto in vita mia. Quando Totò dà le condoglianze si vede che scherza. La morte gli è estranea. Chiama la salma “salmone”.

Totò è alterità rispetto alla morte. E il suo corpo?
È intoccabile. È lui che tocca gli altri, ma non si fa toccare. Totò usa la parola per non farsi avvicinare. E se usa il suo corpo gli dà una configurazione geometrica: la sua gestualità è scandita, non usa mai la geometria della linea curva, ma sempre della linea retta. Il suo corpo non è popolare, ma astratto. Già a futura memoria. È un corpo che si articola in termini spettacolari utilizzando la distanza.

Totò e il sesso?
Lui esprime il suo erotismo solo verbalmente. Nel contatto utilizza una figurazione standard, tipica dell’immaginario collettivo come guardare il seno. Non c’è mai un vero coinvolgimento. È anerotico, ma a fin di bene (nella vita invece ha avuto molte donne). Come diceva Goethe: “L’ironia è la passione che si libera nel distacco”. Totò è anaffettivo.

Ha detto che Totò è premoderno, moderno e postmoderno insieme. Perché?
Premoderno per questo affondo della comicità nella corporeità, e che trova la sua matrice nel Medioevo. Moderno perché si riappropria dell’elemento di avanguardia: la gestualità di marionetta. Postmoderno perché elabora un linguaggio equivocato negli anni ’50 come qualunquismo e invece già prefigura il superamento della politica, lo scetticismo, il dubbio sistematico. Il lavorare sull’incertezza. E ha la contaminazione, che appartiene alla cultura della postmodernità.

Cerami diceva che in Uccellaci e uccellini di Pasolini Totò non diceva mai le battute giuste. E che alla fine ha capito che era il suo modo di prendersi la battuta senza cadere nel testo.
Intanto non ci vedeva. Poi Uccellacci e uccellini è un film noioso. Totò sta a suo agio quando affronta il luogo comune, nelle trame più stracce, visibili, riconoscibili.

Tra l’altro non amava il cinema.
Mio padre l’ha visto al teatro e ha detto che era impressionante. Il pubblico aveva la pelle d’oca. Era un comico carismatico. Cosa che a un comico non dovrebbe succedere. Il comico sembra uno che è indeciso a tutto pur di far ridere. Invece lui obbliga il pubblico ad accettare le sue apparizioni.

A proposito di apparizioni. Un’apparizione è la sua marionetta..
Non fa ridere. Non è frutto della comicità la marionetta, ma frutto di un linguaggio. In quel momento lui è performativo. Ed è un obbligo che deve al pubblico. Deve sempre accennare alla marionetta.

È posseduto dalla marionetta. Per colpa del pubblico?
Lui sta dalla parte del pubblico, un soggetto magari non pensante ma pagante.

Da molti è stato considerato kitsch, per certi suoi film…
E invece è il contrario. Il kitsch sono i luoghi comuni che i suoi sceneggiatori gli buttavano tra le gambe, con sceneggiature fatte male. Ma lui ne usciva sempre. Non si identifica mai coi suoi film.

Anche molta arte contemporanea utilizza il kitsch.
Damien Hirst, Jeff Koons. Wharol, chiaro. C’è la pop art dietro: un modo di catturare l’attenzione collettiva. Ma il kitsch nasce nel Nord Europa, attraverso le favole, che hanno la funzione di terrorizzare i bambini e affascinare gli adulti. Nel caso di Totò kitsch è solo il contesto. Ma lui non ci cade mai. Lo scavalca, lo scosta, lo buca, lo supera. Ha attraversato tutte le sceneggiature restando inalterato, non cambiando.

Compostezza. Totò non è mai volgare?
Mai, lui attraverso la distanza impone uno stile. I suoi disturbi sono sempre accettabili in quanto confortati da una gestualità che non è mai fescennina, nel senso di esagerata.

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